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L'assedio di Gaeta PDF Stampa E-mail

 

L'ASSEDIO DI GAETA

L'eroina di Gaeta

Nell'assedio di Gaeta, cominciato il 12 novembre 1860, gli ultimi sovrani di Napoli, Francesco II e Maria Sofia, guadagnarono gloria e fama per la loro crepuscolare dinastia, mostrando sugli spalti un coraggio degno di ammirazione e rispetto. Maria Sofia fu conosciuta in tutta l'Europa come "l'eroina di Gaeta", diventando il vero simbolo della resistenza borbonica. Lontana dalle ipocrisie e dalle asfissianti regole di corte e in un'atmosfera spartana ed eroica da caserma, la giovanissima regina espresse tutta la sua esuberanza e la sua vitalità, passando le sue giornate sugli spalti, incoraggiando gli artiglieri ed i feriti, e sparando anche personalmente. I soldati la adoravano, tanto da comporre poesie per lei. Questo fu anche il momento più bello per questa infelice coppia regale. Francesco, incoraggiato dalla condotta della moglie, affrontò con dignitosa fermezza e con audacia l'assedio, riscattando, anche se troppo tardi, le miserie di una dinastia giunta al tramonto.

La piazzaforte
Gaeta sorge sopra un promontorio (monte Orlando) a forma triangolare che si protende nel Tirreno per oltre un chilometro e mezzo, elevandosi sul livello del mare fino a 167 metri. Un istmo, il piano di Montesecco, largo circa 600 metri, unisce il promontorio al continente, per rialzarsi gradualmente in una serie di alture.
In base alle regole d'assedio di Vauban (maresciallo di Francia Sebastien La Preste, marchese di Vauban, geniale ideatore delle più efficaci tecniche d'assedio), che prevedevano l'accerchiamento della fortezza con un anello ininterrotto di opere fortificate che si avvicinavano sempre più alle mura con trincee dette parallele (trinceramenti avanzanti in linee oblique, a zig-zag), Gaeta appariva fortissima e quasi inespugnabile. L'attacco alla fortezza poteva avvenire da una parte sola, cioè dall'istmo di Montesecco. La squadra navale francese, per il momento, impediva il blocco navale; ma, comunque, non appariva possibile affrontare le formidabili fortificazioni del fronte di mare con le navi del tempo, non ancora corazzate ed estremamente vulnerabili, mentre tutta la parte sud del promontorio era protetta dalla ripida scogliera a strapiombo sull'acqua. Inoltre una breccia potava essere aperta soltanto nella parte nord, vicino alla porta di terra e prospiciente il mare. Su tutto il resto del fonte, infatti, le mura si appoggiavano alla viva roccia, che poteva solo essere scalfita dalle granate.

Gaeta aveva anche delle gravi deficienze. Di fronte c'erano troppi ripari per l'assediante, fra i quali il Borgo e le villette dei colli Lombone e Cappuccini. Molte batterie non erano blindate, mentre molti passaggi e, perfino, alcune polveriere risultavano vulnerabili. Le munizioni dell'artiglieria non erano così numerose da poter affrontare un lunghissimo assedio, e mancava il legname per le riparazioni degli affusti ed i sacchetti di sabbia per i ripari. Insufficienti erano i viveri per una guarnigione così numerosa, mentre mancava il denaro per pagare gli stipendi e per acquistare viveri, armi e munizioni all'estero (Francesco aveva lasciato le casse a Napoli). Ma la differenza più netta fra l'assediato e l'assediante stava nella qualità e nella potenza dell'artiglieria. I napoletani possedevano 450 bocche da fuoco (26 mortai e 424 fra cannoni e obici), di cui 220 sul fronte di mare (divise in 19 batterie, in due ordini di fuoco, uno in casamatta, l'altro scoperto), 230 sul fronte di terra (divise in 16 batterie poste sui 1200 metri della cinta principale, 5 batterie in opere esterne, più la poderosa batteria Regina posta alle spalle della cinta principale). Sebbene i pezzi fossero numerosi, si trattava di armi ad anima liscia, con gittate corte e tiro impreciso. Molti risalivano al secolo precedente. Alcune furono rigate artigianalmente, con ingegnosità tutta napoletana, adoperando un congegno usato per la fabbricazione delle viti.

Gli assedianti
Il IV corpo d'armata del gen. Enrico Cialdini (808 ufficiali e 15500 fra sottufficiali e soldati) possedevano, invece, un parco d'artiglieria modernissimo, anche se poco numeroso, costituito da 78 cannoni rigati (molti a retrocarica), 65 mortai e 34 cannoni ad anima liscia. I più potenti tra i pezzi rigati potevano tirare fino a cinque chilometri, senza rischio di essere colpiti dagli antiquati cannoni della piazzaforte.
La rigatura della canna dei cannoni aveva costituito una vera e propria rivoluzione nella tecnica e nella tattica militare, consentendo di imprimere ai proietti un'accelerazione e di dotarli di una penetrazione fin allora sconosciute, tanto da rendere improvvisamente superate le tecniche d'assedio di Vauban. Pioniere di tale progresso era stato il gen. piemontese Cavalli, il quale aveva portato l'artiglieria dell'esercito sabaudo all'avanguardia nel mondo.
Comunque, seppur moderna, l'artiglieria del IV corpo d'armata era in numero insufficiente per un bombardamento intenso della piazzaforte e per aprirvi una breccia. Così Cialdini, responsabile dell'assedio, sbraitava chiedendo a Torino cannoni e mortai. Nel frattempo installò il suo comando nel villaggio di Castellone (vicino Mola e diviso da Gaeta dal mare del golfo) e diede inizio ai lavori d'assedio. Collaboratori preziosi di Cialdini furono il comandante del genio, gen. Luigi Federico Menabréa (ufficiale colto e intelligente, futuro presidente del consiglio e ambasciatore a Londra e Parigi) e il col. Valfré, conte di Bonzo, comandante dell'artiglieria. I lavori diretti da questi ufficiali furono, per l'epoca, formidabili. Furono costruiti 18 chilometri di strade, con 15 fra ponti e viadotti, per il trasporto dell'artiglieria da piazzare sulle alture dominanti il piano di Montesecco. Furono tagliati centinaia di alberi e riempiti di terra migliaia di sacchi per costruire i parapetti delle postazioni. Fu ampliato il porticciolo di Castellone, nel quale confluiva tutto il traffico marittimo dei trasporti che recavano il materiale bellico.
I piemontesi divisero il fronte in tre settori, piazzando 23 batterie: primo settore, strada Castellone-Gaeta, con una batteria a Castellone, una fuori paese sul lungomare, una ai piedi del monte Conca (nei pressi della cappella di S. Martino); secondo settore, le colline in seconda linea, con una batteria sul colle S. Agata, tre sul colle Tortano, una sul monte Cristo; terzo settore, le colline in prima linea, con una batteria blindata a casa Albano (nel Borgo), quattro sul colle dei Cappuccini, sette sul colle Lombone, una a Torre Viola, una blindata sul poggio Atratino (la più vicina alle mura).
Mentre dentro la fortezza le condizioni di vita apparivano difficili sin dall'inizio, nel campo piemontese la vita non era spiacevole ed i soldati vivevano privi di dure restrizioni. Per gli ufficiali era proprio una ella permanenza, dove oltre al lavoro e all'addestramento, era basata su lauti banchetti, su copiosi brindisi a base di robusti vini meridionali e champagne, e su cavalcate e concerti. Alloggiavano in villette nei pressi del comando e dormivano in fresche e pulite lenzuola. Poi, per qualche altra "distrazione", c'erano le vivandiere a séguito del corpo d'armata.

Pressioni politiche per la resa
A Gaeta, intanto, Francesco riceveva pressioni da Napoleone III per lasciare volontariamente Gaeta, dato che quest'ultimo subiva forti sollecitazioni ad abbandonare la causa del Borbone dal suo governo, dall'Inghilterra e dagli inviati segreti di Cavour (le relazioni diplomatiche fra Torino e Parigi erano ufficialmente interrotte), mentre la sua consorte spagnola ed i circoli reazionari francesi lo spingevano a non ritirare la squadra navale. Un ritiro volontario di Francesco lo avrebbe tolto da questo imbarazzo. Ma il Re di Napoli non aveva nessuna intenzione di abbandonare l'ultimo lembo del suo reame.

Situazione a Gaeta
Il 10 novembre il governatore della fortezza di Gaeta, ten. gen. Francesco Milon, fu sostituito dal ten. gen. Pietro Carlo Maria Vial de Maton, nizzardo di 83 anni, vecchio legittimista piemontese che aveva cominciato la sua carriera militare nell'esercito sabaudo quale ufficiale; dopo la conquista del Piemonte da parte di Napoleone, era passato nell'esercito austriaco, poi in quello inglese e, infine, nel 1806 in quello borbonico; con quest'ultimo aveva partecipato alla campagna di Spagna e agli assedi di Genova e di La Spezia. Vice governatore fu nominato il conte gen. Gennaro Marulli, valoroso combattente a Palermo e sul Volturno. A capo del genio pose il ten. gen. Francesco Traversa, a cui ordinò di organizzare lavori di rinforzo, quali parapetti, blinde, spianate, traverse paraschegge, modifiche e protezioni per polveriere, eseguiti, con i pochi mezzi posseduti, dai soldati del genio e dell'artiglieria. In questi lavori, svolti per sostenere l'assedio, il vecchio generale pugliese superò se stesso per efficienza e sacrificio nell'adempimento del dovere. Comandante del castello venne nominato il brig. Nicola Melendez, uno dei responsabili del disastro nelle Calabrie, assolto, però, dalla corte marziale. Il comando di tutto il fronte di terra fu affidato al col. Gabriele Ussani, quarantenne napoletano, che si era distinto per capacità e valore sul Volturno, dove aveva comandato l'artiglieria della divisione di Afàn de Rivera, sul Garigliano e a Mola di Gaeta. Allo svizzero ten. gen. Agostino De Riedmatten fu affidato il comando delle batterie del fronte di terra, mentre quelle del fronte di mare furono affidate all'altro generale elvetico Giuseppe Sigrist, ex ispettore delle truppe estere. Ispettore di tutte le batterie fu nominato il ten. gen. Francesco Ferrari, nativo proprio di Gaeta nel 1797. Direttore dell'artiglieria era il mar. Rodrigo Afàn de Rivera, sessantaduenne napoletano di antiche origini spagnole, veterano delle campagne di Sicilia e dello Stato Pontificio del 1848-49., nelle quali fu decorato sia dal Re sia dal Papa.

Il problema principale per Gaeta erano le condizioni di vita. Oltre 20000 soldati (1770 ufficiali e 19700 tra sottufficiali e soldati) e circa 3000 abitanti, affollavano la cittadina. C'erano, inoltre, un migliaio di cavalli e muli privi di foraggio. Gli uomini non avevano coperte, né pagliericci, né ricambi d'abito e di biancheria. Dormivano sulla terra nuda e la loro situazione igienica era paurosa, con grave pericolo di epidemìe. Così il principale pensiero del governatore Vial fu di mandar via da Gaeta tutte le persone non indispensabili alla difesa.
Il 18 novembre Cialdini chiese una tregua al gen. Vial per lo sgombero del Borgo, e gli fu concessa. Approfittando del cessate il fuoco, abbandonarono la fortezza la Regina madre (Maria Teresa) con i piccoli prìncipi e le principesse, l'intero corpo diplomatico estero, con l'eccezione del coraggioso ambasciatore di Spagna Salvador Bermudez de Castro, marchese di Lema, sbarcati a Terracina.

La guerriglia
Alcuni dei soldati inviati a Terracina furono destinati negli Abruzzi, dove resisteva ancora il forte di Civitella del Tronto, per rinforzare le già attive bande partigiane che combattevano contro le truppe piemontesi e contro la Guardia Nazionale. Alla guida della reazione furono inviati il t. col. Francesco Saverio Luverà, trentatreenne di Augusta, e il conte francese Theodule de Christen. Luverà conquistò Carsoli il 10 gennaio; poi, a Tagliacozzo, sconfisse un reparto di 400 piemontesi. Andato a Roma per reclutare altri volontari, fu sostituito negli Abruzzi da Giacomo Giorgi, avvocato di Avezzano, digiuno di tattica, che imprudentemente il 20 gennaio occupò Scùrgola, dove i soldati del temibile generale savoiardo de Sonnaz, messi sull'avviso, circondarono il paese e catturarono 117 uomini del corpo di Luverà, fucilandoli tutti per brigantaggio. Rientrato Luverà, i partigiani borbonici si ritirarono a Orticoli, dove furono raggiunti dai volontari di de Christen. Con 800 uomini si prepararono per nuove azioni, ma, caduta Gaeta (13 febbraio), ricevettero l'ordine di ritirarsi nello Stato Pontificio, cosa che riuscirono a fare a stento, inseguiti dalle truppe di de Sonnaz. Malgrado lo scioglimento di questa banda, la miccia del brigantaggio politico era stata accesa, e avrebbe caratterizzato il sud Italia per circa un decennio.

Il ritorno di Bosco
In concomitanza alle partenze ci furono diversi arrivi, fra i quali, il più importante, fu quello del gen. Ferdinando Beneventano del Bosco, guarito dalla lombalgia che lo aveva tenuto infermo a letto, e liberato dopo l'arresto subito dalla polizia di Garibaldi. L'arrivo del corpulento e valoroso generale siciliano fu accolto dai soldati con entusiasmo. Si trattava, infatti, di uno dei pochi alti ufficiali borbonici a possedere il carisma del condottiero e del trascinatore di uomini. Lo stesso Re gioì nel vederlo, nutrendo per lui sentimenti di amicizia e di stima. Nella piazzaforte arrivarono anche molti réduci della disciolta armata pontificia di la Moriciére, per lo più ufficiali francesi e belgi, membri dell'aristocrazia più reazionaria e crociati del legittimismo pre-rivoluzione francese.
Ripresi i bombardamenti, il 26 novembre il Re emanò un ordine del giorno rivolto ai soldati napoletani rifugiatisi nello Stato Pontificio, col quale li invitava a riprendere le armi ed a costituire delle bande partigiane per combattere l'invasore.

La sortita
Intanto Bosco, messo al comando di una brg, organizzò una sortita. All'alba del 29 novembre 400 cacciatori, tratti dai btg 8°, 9° e 16°, nonché una quarantina di carabinieri esteri, comandati dal t. col. di stato maggiore Migy (neopromosso), uscirono dalla porta sotto gli spalti della batteria Philipstadt, sboccando sul piano di Montesecco. Lo scopo di questa ricognizione era di scoprire e, eventualmente, distruggere i lavori volti ad installare le batterie dietro la torre dell'Atratino e sul colle dei Cappuccini. Bosco aveva a disposizione una riserva di 500 cacciatori, presi dai btg 7°, 8° e 9°, al comando del mag. Francesco Gottscher, che schierò sotto gli spalti, pronta ad intervenire in appoggio a Migy.
Coperto da esploratori e fiancheggiatori, quest'ultimo superò il colle Atratino, ma fu sorpreso dall'intervento immediato di due colonne di bersaglieri, uscite dal convento dei Cappuccini e dal Borgo, che accesero un vivo fuoco di fucileria, a cui risposero vivacemente i napoletani. Fra i primi a cadere fu Migy, mortalmente ferito. Poi, vedendo l'arrivo di una nuova forte colonna piemontese, i borbonici si ritirarono combattendo. Ai piedi del colle Atratino intervenne la riserva di Bosco per coprire la ritirata; dopodiché rientrò nella fortezza anche questa. A quel punto cominciò un duello d'artiglieria che costrinse le colonne piemontesi a fermarsi. Lo scontro ebbe termine alle nove del mattino.
L'obiettivo della sortita era stato raggiunto solo parzialmente, scoprendo che fin allora non erano stati iniziati lavori sull'Atratino. Il costo umano era stato di 3 morti, 17 feriti (fra i quali Migy che morirà la sera dello stesso giorno) e 15 prigionieri per i napoletani; solo di 5 feriti per i piemontesi. Fra i morti ci fu anche il caporale trombettiere di Bosco. Quest'ultimo ebbe un calzone bucato da una pallottola.

L'ultima azione napoletana
Il 1° dicembre fu installata una batteria rigata sul monte Cristo, a quasi 3000 metri dagli spalti, distanza sufficiente per colpirli, ma fuori della gittata di tiro dei cannoni della piazzaforte. In risposta, però, furono piazzati due cannoni da campagna rigati nella batteria Trinità, portati dentro Gaeta dalle truppe ivi rifugiatisi dopo il combattimento del 12 novembre, e idonei a controbattere il tiro dal monte Cristo.
La notte del 4 dicembre Bosco organizzò una nuova sortita, con l'obiettivo di distruggere le case del Borgo più vicine alla piazzaforte, dietro le quali i piemontesi effettuavano lavori e sparavano contro le guardie sugli spalti. Nella notte nebbiosa e buia uscirono 8 artiglieri, guidati dal ten. Corrado, protetti da 120 cacciatori tratti dai btg 7°, 8° e 9°, al comando del cap. Simonetti. Mentre i cacciatori accendevano un combattimento con le sentinelle nemiche, gli artiglieri piazzarono vari barili di polvere da sparo dentro le case e accesero le micce. Ritiratisi, si udirono le esplosioni che mandarono in rovina varie case. La missione era riuscita, anche se i risultati furono irrilevanti nel contesto dell'assedio. Si trattò, comunque, dell'ultima azione di difesa attiva della guarnigione di Gaeta.

Il proclama
Il 2 dicembre il vecchio e malandato gen. Vial, governatore di Gaeta, diede le dimissioni e si recò a Roma. Fu sostituito dal suo vice, il valente conte Marulli.
L'8 dicembre Francesco II indirizzò un proclama ai suoi sùdditi, nel quale, con molta dignità, esprimeva nostalgìa per la patria comune invasa da un brutale straniero, amore per essa, rivendicando comunanza di affetti, di civiltà, di costumi, di lingua con essi. Finiva promettendo lotta per l'indipendenza delle Due Sicilie e rispetto per le norme costituzionali.

Nuove pressioni per la resa
Lo stesso giorno del proclama, Cialdini ricevette l'ordine di cessare il fuoco. Cavour, con l'appoggio dell'Inghilterra, era riuscito a convincere Napoleone III a ritirare la squadra navale e ad inviare una lettera a Francesco, nella quale lo invitava ad abbandonare Gaeta. La lettera giunse l'11 dicembre, consegnata al Re dall'ammiraglio le Barbier de Tinan; ma il Sovrano di Napoli non accettò il consiglio, chiedendo all'Imperatore francese di non ritirare immediatamente la flotta, in modo da avere la possibilità di difendere l'onore militare del suo Regno e della sua dinastia sugli spalti di Gaeta. Colpito dalla dignità della risposta, il Bonaparte decise di non ritirare le sue navi per un altro mese.

Il tifo
Approfittando della tregua, furono congedati i tre rgt della Guardia Reale che tanto male si erano comportati a S. Maria Capua Vetere il 1° ottobre, ed inviati, con le loro famiglie, via mare a Terracina. Vennero tenuti in servizio solo i quadri necessari per formare le 8 compagnie, con truppa da trarsi dai rgt di linea scioltisi, che avrebbero costituito il btg volteggiatori della Guardia Reale. Insieme ai reggimenti della Guardia Reale furono congedati 2000 uomini appartenenti ad altri reparti.
Nella fortezza restarono 994 ufficiali e 12.219 tra sottufficiali e soldati così ripartiti:


generali dell'alto comando 27
S. M. esercito 44
S. M. territoriale 54
8^ direzione artiglieria 34
3^ direzione genio 32
Intendenza generale 80

1^ divisione brig. Marulli
- 1^ brg D'Orgemont
cmp carabinieri dello S. M. 181
btg tiragliatori della guardia 993
frazioni della guardia 312
- 2^ brg Sanchez
btg treno 456
rgt cacciatori a cavallo 404
frazioni di cavalleria 107

2^ divisione brig. Bosco
- 3^ brg Paterna
2° btg cacciatori 459
3° btg cacciatori 331
4° btg cacciatori 578
6° btg cacciatori 543
- 4^ brg Bosco
7° btg cacciatori 398
8° btg cacciatori 557
9° btg cacciatori 559
10° btg cacciatori 538
- 5^ brg conte di Trani
rgt Re artiglieria 1.030
un btg rgt Regina artiglieria 451
btr n° 6 193
btr estera n° 15 182
una cmp btg artefici 150
4 cmp del 2° btg pionieri del genio 629
14° btg cacciatori 526
16° btg cacciatori 901
frazioni fanteria di linea 128
una cmp del rgt Reali Veterani 139
btg veterani carabinieri svizzeri 540
frazioni del 3° btg carabinieri cacciatori esteri 226
una cmp del 4° btg gendarmeria 81
una cmp di riserva provinciale 71
cannonieri marinai 1.126
Corpo telegrafico 33


Fallite le azioni diplomatiche, le ostilità ripresero la notte fra il 13 e il 14 dicembre, con un duello d'artiglieria che durò più di due ore. Ma su Gaeta incombeva un pericolo terribile come le granate: il tifo. Le condizioni igienico-sanitarie avevano raggiunto il livello mìnimo, facendo moltiplicare i pidocchi. Era impossibile lavarsi e cambiarsi gli indumenti; inoltre si dormiva in fétidi locali. Così a dicembre esplose l'epidemìa che provocò più vittime delle bombe. Fra i primi a morire, il 12 dicembre, fu l'aiutante del Re, il ten. gen. Emanuele Caracciolo, duca di S. Vito.

Duelli d'artiglieria
Il 15 dicembre entrarono in azione le nuove batterie poste sul monte Tortano, tirando da 2700 metri sia contro le fortificazioni, sia contro le abitazioni, e provocando le prime pérdite fra la popolazione. Il 27 dicembre i napoletani poterono piazzare due cannoni, rigati artigianalmente dall'intelligente col. Vincenzo Afan de Rivera, nella torre Orlando, dalla quale rispondere al fuoco nemico.
Lo stesso giorno arrivò una nuova proposta di capitolazione e, in alternativa, di una tregua di 15 giorni, ma fu respinta da Francesco, dato che avrebbe permesso agli assedianti di avanzare indisturbati le loro batterie.
Ogni giorno cadevano in media 500 proietti dentro la piazzaforte, anche se molti non esplodevano perché difettosi, e venivano rispediti al mittente dai cannoni napoletani. Il 7 gennaio una granata colpì il palazzo reale, costringendo i Sovrani a trasferirsi in una casamatta addossata al bastione Ferdinando del fronte di mare. L'8 i piemontesi scoprirono tutte le batterie, meno quella sul Lombone, lanciando verso Gaeta ben 8000 granate, ma con risultati modesti. Più efficace e precisa fu la risposta napoletana.

Intimazione di resa
Il 9 gennaio, su nuova proposta di Napoleone III, recata al Re da Tinan, le ostilità vennero sospese, con un armistizio avente valore fino al 19 gennaio, passando la parola nuovamente alla diplomazia. Lo stesso giorno il Re nominò governatore di Gaeta il mar. Giosué Ritucci, il quale, rispettando i términi dell'armistizio, fece interrompere i lavori sulle batterie, cosa che non fece il più scaltro ed infido Cialdini.
Il 16 gennaio una commissione formata da ufficiali del genio e dell'artiglieria borbonici consegnò al governatore Ritucci un verbale, nel quale esprimeva l'opinione che la fortezza avrebbe potuto resistere altri due mesi.
Il 19 Cialdini inviò il gen. Menabréa ed il col. Piola ad intimare la resa che Francesco rifiutò.

Il blocco navale
La sera stessa la squadra di le Barbier de Tinan lasciò il golfo di Gaeta, sostituita dalla flotta piemontese di Persano. Il giorno dopo venne dichiarato il blocco navale di Gaeta.
La situazione della cittadina era peggiorata sensibilmente: un fetore malsano appestava l'aria, provocato dalle carogne in putrefazione degli animali (gli uomini venivano seppelliti sotto il selciato delle strade) e dalle immondizie non rimosse; i viveri ed i medicinali scarseggiavano e, di conseguenza, molti feriti venivano operati (con frequenti amputazioni) senza anestetico.; il tifo, le malattie, la sporcizia e la denutrizione indebolivano al mìnimo sopportabile i difensori e gli abitanti di Gaeta. I soldati, malgrado ciò, avevano ancora la carica per battersi, esaltati dal coraggio dei Sovrani, spesso presenti sugli spalti con i combattenti o negli ospedali ad assistere i feriti.

Un giorno glorioso
La mattina del 22 gennaio, illuminata da uno spléndido sole, la batteria Regina riprese le ostilità alla presenza della famiglia reale. Poi, tutti i cannoni del fronte di terra della fortezza tirarono contro il colle dei Cappuccini, sorprendendo l'assediante che rispose al fuoco solo dopo qualche tempo. Dopo un paio di ore intervennero le navi di Persano, e un fragore spaventoso soffocò ogni altro rumore, comprese le grida atroci dei feriti. Tutto era avvolto da un fumo densissimo e da fiamme. I piemontesi avevano inaugurato le batterie installate sul colle Lombone, sparando in tutto il giorno 22 ben 18000 proietti, 4000 dei quali dalla flotta. La fortezza rispose con 11000 colpi, danneggiando, in particolare, le batterie del colle dei Cappuccini. Sotto questo fuoco spaventoso il Re, accompagnato dai fratelli, dirigeva il fuoco dalle batterie; mentre Maria Sofia, muovendosi a cavallo, andava a soccorrere i feriti.
Efficace e preciso fu il tiro delle batterie piemontesi di terra, anche grazie alla collaborazione degli ufficiali napoletani disertori, fra i quali il maggiore del genio Giacomo Guarinelli che aveva prestato servizio nella guarnigione di Gaeta negli ultimi vent'anni; innocuo fu, invece, il tiro della flotta che si tenne a débita distanza, subendo le pernacchie ed i gestacci degli artiglieri napoletani.; l'ùnica nave che si avvicinò a tiro, la cannoniera Vinzaglio, fu danneggiata tanto da doversi ritirare. Anche a séguito di questo episodio, l'ammiraglio Persano fu considerato un falso coraggioso da Cialdini.

Il 22 gennaio, seppur terribile, era stato un giorno glorioso per i napoletani, i quali avevano combattuto con sprezzo del pericolo, gridando ad ogni colpo "viva 'o Re", accompagnati dall'inno nazionale di Paisiello suonato dalla banda militare. Le pérdite di quella giornata furono di 11 morti e 122 feriti per la guarnigione; 18 morti e 53 feriti fra gli assedianti. Innumerevoli anche le perdite fra la popolazione.
Intanto in quei giorni ci fu una recrudescenza del tifo, con 70 nuovi malati ogni giorno. Fra i molti deceduti ci furono il gen. Francesco Ferrari, il duca di Sangro (aiutante generale del Re) e l'abate svizzero Eichholzer (confessore della Regina).

Esplosione della batteria S. Antonio
Negli ultimi giorni di gennaio il bombardamento continuava con una certa stanchezza. La situazione cambiò a febbraio, quando i piemontesi, indirizzati da ufficiali borbonici disertori, cominciarono a mirare sui depositi di polvere. Il 4 saltò in aria la conserva di munizioni della batteria Cappelletti, provocando una breccia che fu prontamente riparata. Fatale fu il 5 febbraio, quando, nel pomeriggio, fu colpita in pieno la polveriera della batteria di S. Antonio (posta sul fronte del mare, ma a contatto con l'ala destra del fronte di terra di Montesecco), provocando uno scoppio tremendo che fece tremare la terra per parecchi chilometri, seguito da una spaventosa oscurità causata dalle dense colonne di fumo e dalla polvere. Il bastione di S. Antonio e le case vicine erano scomparse. Al loro posto c'era un'enorme voragine piena di cadaveri, di brandelli umani e di feriti urlanti. Sotto le macerie erano centinaia le persone seppellite vive. Calata la polvere, cominciarono i lavori di soccorso, ostacolati dal tiro concentrico delle batterie nemiche che cercavano di sfruttare i risultati dello scoppio. Le batterie della piazzaforte risposero con disperata energìa, danneggiando anche due navi dell'ammiraglio Persano. I soccorritori mostrarono un grandissimo coraggio, salvando, sotto il fuoco nemico, centinaia di persone.
Furono contate 216 morti fra i militari, un centinaio fra i civili, nonché moltissimi civili e dispersi. Fra i caduti ci fu pure il comandante del genio ten. gen. Francesco Traversa, vecchio ed eroico veterano; trovato il suo corpo tra le macerie, i suoi soldati piansero a lungo questo ufficiale modesto, riservato e fedele sino alla fine. Fu sostituito dal suo vice, il brig. Pietro Pelosi. Altro valoroso caduto fu il t. col. Paolo De Sangro, napoletano quarantunenne, brillante ufficiale del genio, protagonista della resistenza di Gaeta.
Gli effetti materiali dell'esplosione, seppur gravi, non furono decisivi, perché la breccia provocata era sfruttabile solo con un assalto dal mare con truppe caricate in barche, le quali, però, sarebbero state sottoposte a tutto il fuoco delle batterie e della fucileria di quel lato. Determinanti furono, invece, gli effetti sul morale della guarnigione, che precipitò nella disperazione.

La mattina del 6 febbraio fu colpito ed esplose un piccolo deposito di bombe nel bastione di S. Giacomo. La precisione con cui colpivano i piemontesi provocava lo scoramento tra i difensori, i quali sospettavano fortemente l'opera di traditori.
Lo stesso giorno venne messo a riposo l'anziano maresciallo svizzero Giuseppe Sigrist, responsabile del fronte di mare, e sostituito col più giovane ufficiale superiore della piazza, il t. col. Francesco Saverio Anfora, ventottenne napoletano, ufficiale del genio di grandi capacità ed uno dei personaggi carismatici fra i difensori di Gaeta.

L'ultima tregua
La sera Ritucci chiese una tregua a Cialdini per i lavori di soccorso, dato che sotto le rovine del bastione di S. Antonio si udivano ancora lamenti. Il comandante piemontese concesse 48 ore di tregua a partire dalle 10 di sera del 6 febbraio, a condizione che si interrompessero i lavori di riparazione della breccia. Durante la tregua furono inviati a Mola 200 soldati feriti o malati col consenso di Cialdini.
La sera dell'8 febbraio, su ordine del Re, Ritucci convocò il consiglio di difesa, composto da 31 generali ed ufficiali superiori, per esprimere un parere su un eventuale prolungamento della resistenza. Si trattava degli uomini più valorosi e fedeli che, all'unanimità, decisero per la resistenza.

Esplosione della batteria Transilvania
La mattina del 9 ricominciarono le ostilità. I piemontesi erano sempre più precisi; così si sviluppavano incendi, crollavano muri e parapetti, saltavano blindature, ammutolivano cannoni e morivano uomini; mentre l'artiglieria della fortezza non poteva arrecare grave danno perché le batterie e i depositi del nemico erano sparsi, ben protetti e, in parte, fuori tiro.
Il 10 Maria Sofia ricevette una lettera dall'Imperatrice di Francia, Eugenia, nella quale consigliava la resa, poiché non esistevano più possibilità di interventi stranieri e la resistenza di Gaeta era già durata abbastanza per salvare l'onore militare napoletano. Resistere ad oltranza avrebbe solo provocato altre inutili vittime, senza averne alcun frutto. Francesco e Maria Sofia, molto umani e sensibili, non volevano imporre altri sacrifici ai loro fedeli soldati e agli abitanti di Gaeta, per cui diedero délega a Ritucci di trattare la resa. Questi chiese un armistizio a Cialdini per lo svolgimento delle trattative, inviando il t. col. di stato maggiore Giovanni Delli Franci a Castellone. Ma Cialdini non voleva perdere tempo, così rispose che si sarebbe potuto trattare anche senza sospendere le ostilità, dimostrando un forte disprezzo per la vita umana. Ciò scatenò le proteste di Ritucci che entrò in polemica col comandante nemico. Per non nuòcere alle trattative di resa, Francesco fece dimettere Ritucci, nominando al suo posto il vecchio ten. gen. Francesco Milon. Poi nominò la commissione per la capitolazione, formata dal capo di stato maggiore dell'esercito gen. Francesco Antonelli, dall'ammiraglio Roberto Pasca e dal t. col. Giovanni Delli Franci. La commissione piemontese era formata dal comandante del genio gen. Menabréa e dal capo di stato maggiore del IV corpo d'armata col. Piola Caselli.
Mentre le commissioni trattavano a Mola di Gaeta, il 13 febbraio gli assedianti scoprivano due nuove batterie, bersagliando duramente la fortezza. Quando già le condizioni di resa erano state decise, alle 3 pomeridiane, si sentì una nuova tremenda esplosione: un proietto aveva colpito una polveriera e l'attiguo laboratorio, distruggendo la batteria Transilvania. Oltre ad alcuni civili, perirono 17 soldati e 25 furono feriti.

La capitolazione
Il dolore e l'indignazione fece lacrimare gli ufficiali napoletani della commissione di resa che furono testimoni dell'esplosione dalla villa Caposele di Castellone. Le batterie dei difensori risposero con rabbia ed energìa, fino alle 6 e mezza pomeridiane, quando, firmata la capitolazione dalle commissioni, gli assedianti cessarono il fuoco.
Tornavano, finalmente, la calma ed il silenzio, dopo tre mesi di assedio e venticinque giorni di blocco. In questo periodo i piemontesi spararono contro la fortezza circa sessantamila proietti; i napoletani risposero con quasi quarantamila. Fra i militari napoletani 829 furono i caduti in combattimento ed i morti per malattìa, quasi 600 i feriti, circa 1400 gli ammalati, per un totale di 2800 uomini fuori combattimento. Fra la popolazione civile i morti furono circa 200, più varie centinaia di feriti e di ammalati. Le perdite dei piemontesi, 46 morti e 321 feriti, furono di molto inferiori per le motivazioni già citate.
La capitolazione, composta da 23 articoli, prevedeva gli onori militari a tutta la guarnigione, la consegna di tutte le armi, le munizioni ed i materiali della fortezza ai vincitori; due mesi di paga per i militari e gli impiegati napoletani; possibilità per ufficiali, sottufficiali e graduati nazionali di essere arruolati nell'Esercito Sabaudo; congedo assoluto peri militari di truppa che avessero terminata la ferma obbligatoria; licenza di due mesi per quelli ancora in obbligo di leva; sussidi e pensioni per chi avesse maturato l'anzianità, ai mutilati, agli invalidi, alle vedove ed agli orfani dei caduti (questo articolo non fu poi rispettato dal governo di Torino); prigionìa per tutti i militari fino alla resa di Messina e di Civitella del Tronto; ritorno in patria dei militari esteri dopo la prigionìa, con concessione delle liquidazioni previste dalla legge. Si trattava di un accordo complessivamente dignitoso per i vinti, anche se poi non completamente rispettato dai vincitori.

Verso l'esilio
La notte fra il 13 e il 14 febbraio Francesco II redasse il suo ultimo ordine del giorno, col quale lodava e ringraziava i suoi fedeli soldati. La mattina del 14 febbraio 1861, mentre i fanti piemontesi della brg Regina al comando del gen. De Regis entravano nella fortezza, Francesco II e Maria Sofia uscirono col loro seguito dalla casamatta e si diressero verso la porta di mare, attraverso un corridoio formato da due schieramenti di soldati napoletani con alle spalle altri commilitoni e cittadini di Gaeta. Li accompagnava il suono dell'inno napoletano di Paisiello, suonato dalla banda militare. I soldati, làceri e smunti, piangevano e gridavano "viva 'o Re"; alcuni si gettavano ai piedi dei Sovrani, baciandogli le mani. Molti si abbracciavano singhiozzando; altri spezzavano le sciabole e si strappavano le spalline. La popolazione, commossa, sventolava i fazzoletti. I due giovani Sovrani, pallidissimi, salutando salirono sulla lancia che li portò a bordo della nave francese Mouette, e da quel giorno non rividero più il loro Regno. Sulla torre d'Orlando fu ammainata la bianco-gigliata bandiera borbonica ed issato il tricolore con la croce dei Savoia. La Mouette approdò a Terracina e, da lì, i due Sovrani furono portati in carrozza a Roma, dove furono ospitati nel palazzo del Quirinale da Pio IX.

L'onore delle armi
La mattina del 15 febbraio, inquadrati, uscivano dalla fortezza i reparti della guarnigione. Presentavano le armi i fanti della brg Bergamo del gen. Casanova, schierati sull'istmo di Montesecco.
I prigionieri napoletani, con esclusione dei generali, dei chirurghi e dei cappellani, liberati sulla parola, furono deportati sulle isole del golfo di Napoli e liberati alla fine di marzo, dopo la resa di Civitella.
Il comportamento della guarnigione di Gaeta fu, senza dubbio, eroico. Soldati di un esercito umiliato, vergognosamente tradito dai suoi capi, assalito da forze superiori per organizzazione ed armamento, questi uomini dimostrarono uno spirito di resistenza e un entusiasmo eccezionali, conservando in 103 giorni d'assedio una condotta coraggiosa e dignitosa, anche in mezzo a condizioni materiali quasi insopportabili, sotto pesanti bombardamenti e in mezzo ad una epidemìa di tifo, riscattando le vergognose prove delle Calabrie.

Il Regno delle Due Sicilie non esisteva più,
ma questi uomini coraggiosi, stretti attorno ai loro Sovrani,
ne consentirono un eroico tramonto.

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L'INVASIONE PIEMONTESE - IL GARIGLIANO

L'INVASIONE

 

La delicata situazione internazionale

 

Nelle Marche ed in Umbria, vinte le resistenze dei pontifici, , il 3 ottobre Vittorio Emanuele II assunse il comando supremo dell'armata piemontese e mosse in direzione del Regno di Napoli senza neppure salvare la forma col presentare la dichiarazione di guerra. L'intervento armato venne giustificato da Cavour con la necessità di ristabilire l'ordine nell'Italia meridionale minacciata dalla rivoluzione.

Il comportamento del governo di Torino per poco non fece scoppiare una guerra europea. Infatti la Spagna e la Russia ruppero le relazioni diplomatiche col Piemonte, mentre l'Austria inviava le sue truppe verso il Mincio. Napoleone III, con un comportamento sempre più ambiguo, invitò i piemontesi a far presto e, contemporaneamente, ritirò l'ambasciatore da Torino. A salvare la situazione intervenne l'Inghilterra, vero regista dell’invasione. La regina Vittoria, infatti, appoggiata dal suo ministro degli esteri, lord John Russel, convinse il principe reggente di Prussia a non compiere atti ostili contro la causa italiana. Così l'Austria rimase quasi isolata nella sua posizione, e non intervenne temendo di dover affrontare da sola Francia e Inghilterra.

 

Combattimenti negli Abruzzi

Negli Abruzzi operava la brg di volontari borbonici agli ordini del colonnello prussiano Klitsche de la Grange, costituita ad Itri con 4 battaglioni. Il 1° era formato da profughi della Sicilia: militari, compagni d'arme ed elementi comunque compromessi col regime borbonico, che avevano dovuto lasciare l'isola in tutta fretta con le famiglie, per sfuggire alle vendette dei rivoltosi. Questi uomini, come scritto nella sua relazione dal de la Grange, avrebbero seguito il reparto a guisa di sciame di locuste, formando la maggior sua calamità. A differenza del 1° btg, composto da gente estremamente decisa, ma assai indisciplinata, gli altri tre battaglioni erano formati con volontari locali, più docili, ma anche meno tenaci. Non appena costituiti e mancando del tutto di addestramento, e solo parzialmente vestiti ed armati, entrarono in campagna rinforzati da due compagnie di gendarmi e mezza batteria da montagna.

Questi volontari , condotti dal vecchio e coraggioso de la Grange, conquistarono Sora, dove era stato proclamato il governo provvisorio da parte dei liberali, poi ripresero Arpino e, il 6 ottobre, Civitella Roveto, dove si erano riuniti i ribelli liberali che subirono perdite per 40 caduti e un centinaio di prigionieri. Nella guerra civile scoppiata negli Abruzzi si affiancarono alla brg de la Grange squadriglie di contadini, dette "masse volanti", che scacciarono i liberali da Tagliacozzo, Avezzano, Cicolano e Magliano dei Marsi. La valle del Roveto era così tornata in mano borbonica.

 

Temendo la crescente e violenta reazione dei borbonici, e la notizia dell'avvicinarsi di due colonne di soldati regi (la brg de la Grange dalla valle di Roveto e il corpo del gen. Douglas Scotti dal Molise), i governi provvisori degli Abruzzi inviarono delle deputazioni ad Ancona, da Vittorio Emanuele, per esporre la gravità della situazione e richiedere l'intervento delle truppe piemontesi, e furono ricevute il 5 ottobre. Intanto i governi provvisori cercarono di organizzare la difesa e di reprimere il nascente brigantaggio politico. Numerose compagnie di volontari e di guardie nazionali occuparono una parte della Màrsica, le gole di Pòpoli, sino a Sulmona e a Castel di Sangro. Si trattava dei volontari al comando di Pateras e Fanelli, e delle guardie nazionali al comando di Silvio Ciccarone, Nicola Marcone e Raffaele De Novellis, truppe motivate, ma non atte a resistere ad un eventuale attacco di truppe regolari; per cui, per salvare gli Abruzzi dalla reazione legittimista, non restava che sperare sull'intervento dell'esercito piemontese.

 

Nuovi combattimenti sul Volturno

Dunque, mentre la diplomazia giocava le sue carte, si continuava a morire in Puglia, Molise e Abruzzi, dove violente reazioni popolari si scontravano con la guardia nazionale agli ordini dei governi provvisori liberali, scatenando quella guerra civile che avrebbe insanguinato per dieci anni il meridione d'Italia.

Si continuava a combattere pure lungo il Volturno, dove i contendenti rafforzavano le loro posizioni. Violenti scambi di colpi di artiglieria avvennero tra le posizioni borboniche di Triflisco e monte Gerusalemme e quelle garibaldesi di S. Iorio e Gradillo.

L'8 ottobre un'offensiva garibaldese spinse gli avamposti napoletani fin sotto Capua, ma fu bloccata. Il contrattacco borbonico, effettuato da un buon numero di soldati di diversi corpi guidati dal gen. Girolamo De Liguoro, penetrò fino a S. Angelo, ritirandosi dopo essersi impossessato di molti viveri dai magazzini nemici. Un nuovo attacco invasore fu respinto la sera con gravi perdite. Quel giorno i napoletani ebbero 2 caduti e 17 feriti; i garibaldesi perdite più gravi, causate soprattutto dall'artiglieria di Capua. I giorni successivi avvennero molte altre scaramucce, ma che non modificarono la situazione strategica.

 

Situazione politica italiana

Sul piano politico era cessata, finalmente, la penosa commedia del mantenimento dei rapporti diplomatici fra il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie. Cavour, infatti, espulse da Torino l'ambasciatore napoletano Winspeare, giustificando l'atto con un'abdicazione di fatto di Francesco II che aveva abbandonato la capitale, svelando così le sue vere intenzioni.

Intanto, a Napoli, Garibaldi lottava anche contro gli avversari politici. Gli unionisti, aizzati dagli agenti cavouriani, premevano per un immediato plebiscito per l'annessione, in modo da consegnare il potere al governo di Torino.

Fallirono i tentativi di Mazzini e di Cattaneo, giunti a Napoli, volti a ritardare il voto e a puntare ad un contemporaneo pronunciamento delle popolazione a favore di un'assemblea costituente. La sinistra democratica, avendo anteposto l'unità d'Italia (anche sotto lo scettro dei Savoia) agli altri obiettivi politici, si era indebolita, non riuscendo a contrapporre una credibile alternativa politica rispetto a quella cavouriana. Così Garibaldi finì per fissare il plebiscito, che gli avrebbe fatto perdere il potere, per il giorno 21 ottobre.

 

L'invasione piemontese delle Due Sicilie

Il 12 ottobre, dopo aver lanciato un proclama alle popolazioni meridionali, Vittorio Emanuele passava il fiume Tronto (confine tra lo Stato Pontificio e le Due Sicilie) con la sua armata, penetrando negli Abruzzi, accolto dal comandante territoriale della regione, gen. Luigi De Benedictis, e dal comandante le armi della provincia di Teramo, brig. Agostino Veltri, già passati agli ordini del governo dittatoriale di Napoli. Il piano della spedizione prevedeva che il IV corpo d'armata di Cialdini ed il V di della Rocca dovevano seguire la costa fino a Pescara, per poi dirigersi verso l'interno. Aggirata la Majella per due strade diverse, una a nord per Popoli e Sulmona, l'altra a sud, si sarebbero ricongiunti in direzione di Castel di Sangro. Da Isernia a Venafro avrebbero dovuto sboccare alle spalle dell'Esercito Borbonico, schierato sul Volturno, costringendolo a dare battaglia sul Garigliano e, se possibile, tagliandolo fuori da Gaeta e dal confine pontificio. Un'altra colonna, composta dai granatieri di Sardegna del gen. de Sonnaz, sbarcò a Manfredonia per puntare su Napoli da oriente.

Inizialmente i piemontesi furono ben accolti dalla popolazione abruzzese. Fra l'altro, in quella regione le truppe napoletane erano state ridotte al minimo: la brg del barone Teodoro Klitsche de la Grange, che operava nella zona interna ai confini col Lazio, e la guarnigione della fortezza di Civitella del Tronto, costituita da circa 450 fra gendarmi, artiglieri, veterani e fanti di vari corpi sbandatisi. Quest'ultima posizione nemica, aggirata e lasciata alle spalle, fu assediata da alcuni reparti al comando del gen. Ferdinando Pinelli.

Penetrando sempre più a sud, i piemontesi cominciarono ad imbattersi sui segni della guerra civile tra legittimisti e liberali: case bruciate, campi devastati, cadaveri abbandonati. La popolazione cominciò a diventare più ostile, silenziosa al passaggio degli stranieri. I piemontesi reagirono immediatamente con lo stato d'assedio e le fucilazioni, inaugurando una repressione feroce che sarebbe pesata sulle popolazioni meridionali per una decina d'anni.

 

La flotta francese

Intanto, il viceammiraglio francese le Barbier de Tinan, favorevole alla causa borbonica quanto ostile a quella italiana, si recò in visita da Francesco II, comunicandogli che avrebbe protetto con la sua flotta tutto lo specchio di mare che bagna la costa da Gaeta al Garigliano. Ciò incoraggiò alla resistenza il Re.

Il 14 ottobre, mentre nei pressi di Napoli capitolava per mancanza di viveri il fortino di Baia (145 veterani ed artiglieri al comando del mag. Giacomo Livrea), il Re convocò a Calvi Ritucci, chiedendogli una nuova offensiva verso la capitale, allo scopo di impedire il plebiscito. Ma, al solito, il maresciallo sollevò varie obbiezioni, presentandole per iscritto, controfirmate dai generali von Mechel e Polizzy. Un ultimo pressante appello a Ritucci, recato dal direttore della guerra gen. Antonio Ulloa, a nome del consiglio di Stato, per spingerlo ad una offensiva, gli pervenne il 19 ottobre; ma questa volta poté opporre una ragione più che valida: le truppe piemontesi erano penetrate profondamente in Abruzzo e bisognava garantirsi le spalle, arretrando sul Garigliano.

Così, mentre si preparava l'arretramento del fronte, si attrezzava Capua per affrontare un lungo assedio. Nel frattempo gli scontri erano continuati. Il 15 ottobre i borbonici effettuarono una forte ricognizione verso S. Angelo; il 14° btg cacciatori, due cmp del 6° ed una btr da campagna, al comando del col. Raffaele Vecchione, usciti all'alba da Capua, attaccarono e distrussero alcuni posti avanzati nemici, facendo pure qualche prigioniero. Il contrattacco garibaldese, lanciato con rinforzi giunti da S. Maria e da Caserta, non riuscì ad agganciare i napoletani in ritirata e si interruppe, con forti perdite, di fronte ai cannoni delle mura di Capua. Furono 4 i morti e 40 i feriti per i regi; 2 i morti e 60 i feriti per i garibaldesi, fra i quali molti soldati della brigata piemontese Re, sbarcata dalla squadra navale di Persano il 10 ottobre.

 

La guerra in Molise

Si combatteva anche in Molise, dove il 23 settembre era stato inviato da Francesco II il mag. Achille De Liguoro con tre cmp del 5° btg di gendarmeria (600 uomini) a ristabilire l'autorità borbonica in una provincia da sempre fedele alla dinastia. De Liguoro era un fedele e capace ufficiale barese di 48 anni che aveva avuto come ultimo comando la gendarmeria in Calabria; qui, in agosto, era stato testimone della fuga di Vial e dello sbandamento della sua divisione; nauseato, aveva dato le dimissioni ed era riuscito a raggiungere Capua con tre compagnie del suo battaglione.

Nella sua marcia De Liguoro riaffermò il governo legittimo a Mignano e S. Germano, poi, il 30 settembre, a Venafro. Alla notizia del suo imminente arrivo Isernia si ribellò al governo provvisorio di Garibaldi e vi fu un massacro di liberali e di guardie nazionali. Il 4 ottobre una colonna di guardie nazionali, proveniente da Campobasso, rioccupò la città, reprimendo duramente la rivolta. Il giorno dopo De Liguoro partì da Venafro con 350 gendarmi, il 1° btg del 1° rgt granatieri (mag. Michele Sardi), un plotone di cacciatori a cavallo e due cannoni. Coadiuvato da una potente massa di contadini e dagli abitanti di Isernia, le truppe napoletane sbaragliarono il nemico, provocandogli un centinaio di morti e catturandone una cinquantina; a seguito di questa vittoria fu ristabilito il governo legittimo in tutto il circondario. De Liguoro, incoraggiato dall'episodio favorevole al suo reparto, chiese l'autorizzazione al gen. Ritucci di poter attaccare i ribelli concentrati a Sulmona; il comandante napoletano, a causa della sua ostinata prudenza, non lo permise.

 

Persa Isernia, il governo provvisorio del Molise inviò da Garibaldi il mag. Gerolamo Pallotta della guardia nazionale di Boiano, col còmpito di richiedere rinforzi per domare la reazione esplosa in tutta la provincia. Deciso a riconquistare la cittadina molisana, il 17 ottobre Garibaldi inviò tre colonne verso Isernia: da Campobasso il col. Francesco Nullo con un migliaio di uomini (legione matese e volontari siciliani), dagli Abruzzi un reparto di volontari al comando di Teodoro Pateras (veterano del Corpo Volontario Napoletano della Repubblica di Venezia -1848-49) e da Maddaloni un altro reparto al comando di Giuseppe De Marco. Ma la manovra per schiacciare Isernia da tre lati fallì. Verso mezzogiorno, a Pettoranello, vicino Isernia, Nullo cadde in un'imboscata preparata dal mag. De Liguoro, appoggiato da molti volontari civili, e la sua colonna si sbandò e fu fatta a pezzi. Non fu una battaglia, ma un massacro con combattimenti frazionati che durarono fino a notte. Nullo, il suo aiutante mag. Caldesi e sette guide, rimasti isolati dal grosso, si aprirono la strada con le sciabole e le rivoltelle, riuscendo a trovare scampo a Boiano. Della legione di garibaldesi le perdite furono di un terzo tra morti, feriti e catturati; al nemico, infatti, furono lasciati 140 prigionieri , le salmerie e le bandiere. Molti furono i garibaldesi linciati dalla popolazione. Pochi si salvarono, fuggendo verso Campobasso o nascondendosi nelle campagne. Tutto il distretto di Isernia si sollevò contro il governo di Garibaldi, mentre anche De Marco, proveniente da Maddaloni, fu affrontato e respinto dalla popolazione civile, armata con vecchi fucili da caccia, attrezzi agricoli e pietre.

In Molise, oltre ai gendarmi di De Liguoro e alle bande di insorti reazionari, operava anche un reparto di truppe regolari al comando del ten. gen. Luigi Douglas Scotti, conte di Vigolino, di famiglia nobile di origine piacentina. Il Re lo aveva nominato commissario regio della zona di confine che da Ceprano, attraverso S. Germano, si addentrava nel Molise, col còmpito di provvedere ad assicurare l'ordine e la tranquillità del territorio. Egli avrebbe dovuto procedere verso gli Abruzzi, approfittando dei disordini, e riconquistare la fortezza di Pescara; non ebbe, però, l'animo di osare, perdendo una favorevole occasione.

 

Combattimenti a Capua

Sul fronte del Volturno si continuava a combattere nei pressi di Capua, dove il 18 ottobre i difensori della fortezza cercarono di tagliare gli alberi dello spiazzo di fronte, in modo da consentire ai cannoni un tiro più profondo, scontrandosi con gli avamposti garibaldesi. Un grosso scontro avvenne la mattina successiva tra i napoletani ed i piemontesi della brg Re, appoggiati dalla legione inglese del col. Peard. Gli inglesi, avanzando imprudentemente fin sotto la fortezza, furono decimati dal tiro a mitraglia, perdendo anche un capitano. Il preciso tiro dell'artiglieria napoletana raggiunse l'obiettivo di interrompere i lavori d'assedio nemici.

 

Il Macerone

Il 20 ottobre avvenne il primo scontro tra i napoletani e l'armata di Vittorio Emanuele, la quale era penetrata in Molise, schierandosi sul ponte del torrente Vandra e sul monte Macerone, a nord-ovest di Isernia. Qui, dal 18 settembre, si trovavano i reparti borbonici al comando del gen. Luigi Douglas Scotti, con l'ordine di fronteggiare l'aggressione piemontese proveniente dagli Abruzzi, a protezione delle retrovie dall'armata del Volturno. Scotti aveva ai suoi ordini 240 gendarmi del 5° btg gendarmeria (mag. Achille De Liguoro), 800 fanti del 1° rgt di linea Re (t. col. Gioacchino Auriemma), un plotone di cacciatori a cavallo, un nutrito gruppo di volontari guidati dal molisano Teodoro Sanzillo e due cannoni. Scotti, venuto a conoscenza della presenza di rivoltosi sul Macerone, la mattina del 20 avanzò in quella direzione. Avvisato dai contadini della zona sulla presenza di numerosa truppa piemontese, non volle credergli, avanzando malgrado il parere contrario dei suoi ufficiali. Fermo comodamente su una carrozza ai piedi del monte, fece avanzare su tre colonne le sue truppe. In cima al monte era schierata l'avanguardia piemontese, costituita da due btg di bersaglieri con due cannoni, comandati dal gen. Paolo Griffini, il quale assalì da posizione vantaggiosa la colonna nemica che avanzava alla cieca, senza effettuare ricognizioni. I napoletani furono colti completamente di sorpresa e, dopo una breve resistenza, assaliti anche dalla brg Regina, si diedero alla fuga per la via consolare, dove, caricati dal rgt Lancieri di Novara, si arresero in numero di 650, fra i quali lo stesso gen. Scotti. Il resto si ritirò verso Venafro. Scotti non era stato, per inettitudine, inferiore al Landi di Calatafimi, provocando un duro colpo al morale dei napoletani e scoprendo le spalle dell'armata di Ritucci.

 

Ritirata sul Garigliano

A quel punto Ritucci, avendo il tergo scoperto, ordinò la ritirata generale dal Volturno, in direzione del Garigliano, lasciando indietro solamente la guarnigione di Capua, costituita da circa 10000 uomini.

Per parare l'avanzata piemontese da Isernia fece fronte ad est, schierando la sua armata, da nord verso sud, dal Garigliano fino a Calvi: la brg D'Orgemont in quest'ultimo paese; la div. von Mechel a Teano; la div. Colonna più a nord; la div. di cavalleria del brig. Giuseppe Palmieri scaglionata su tutto il fronte; la brg Polizzy, rivolta a sud, in retroguardia. Il brig. Polizzy, neopromosso per il valore e la perizia dimostrati nel combattimento di S. Angelo, diresse con grande bravura e competenza militare la difesa della retroguardia.

 

La legge militare di guerra

Nel frattempo l'avanguardia piemontese, formata da 8000 uomini al comando del gen. Cialdini, giunse fino a Venafro. Per essi lo spettacolo fu desolante: cadaveri ovunque, e numerose case bruciate, saccheggiate, distrutte. Per soffocare la rivolta reazionaria del Molise i piemontesi emisero il bando di Isernia (23 ottobre) che prevedeva l'instaurazione della legge militare di guerra, con corti marziali e pena di morte per chi non consegnasse le armi. Anche per la popolazione del Molise, come avveniva già per quella abruzzese, ebbe inizio una repressione terribile, con fucilazioni, carcere, torture e crudeltà varie. Cialdini si permise, pure, di inviare una minaccia al governo borbonico, in cui gli ingiungeva di non torcere un capello ai prigionieri garibaldesi, pena la rappresaglia su quelli napoletani. La risposta del primo ministro Casella fu dignitosa e nobile. Egli comunicò al generale nemico che i prigionieri garibaldesi erano sempre stati trattati umanamente, anche quando risultavano disertori dell'esercito napoletano e, quindi, fosse prevista per legge la pena di morte. Così, mentre i napoletani risparmiavano i loro stessi soldati passati al nemico, i piemontesi si arrogavano il diritto di fucilare sudditi di un altro Regno che avevano come unica colpa quella di difendere la propria patria.

 

Il plebiscito

In questo clima di estrema violenza e confusione si svolse il plebiscito del 21 ottobre. La formula era questa: "Il popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele come Re costituzionale per sé e i suoi legittimi successori.". Il modo in cui si svolse il plebiscito non può essere preso sul serio, ne certamente, come esempio di libertà e democrazia. Al voto fu ammesso l'intero Esercito Meridionale, formato in maggioranza da settentrionali e da stranieri. I sudditi delle zone ancora presidiate dall'esercito napoletano non poterono votare, come non votarono gli stessi soldati regi che, in teoria, essendo sudditi delle Due Sicilie, ne avevano diritto. La segretezza dell'urna fu regolarmente violata e vi furono, anche, pressioni psicologiche e fisiche.

 

Esistevano due tipi di schede, una con la scritta SI, le altre con la scritta NO, e ci sarebbe voluto molto coraggio entrare nei seggi e scegliere quella col NO. In molti comuni le votazioni non si svolsero, a causa della reazione del popolino fedele al Borbone.

Comunque sia, su circa due milioni e più di aventi diritto (solo i sudditi di sesso maschile maggiorenni e possidenti), si recò alle urne il 90%

(Sicilia 2.232.000 abitanti; votanti 432.720 (75.2%) di cui favorevoli 432.053. Contrari 667)

(Cronologia De Agostini - 1815-1990)

...leggiamo anche un passo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo:

" ....Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; Si 512, No zero. Eppure Ciccio Tumeo assicura: "Io, Eccellenza, avevo votato No. E quei porci in municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco!".

(La Grande truffa. Ettore Beggiato - Editoria Universitaria. 1999)

 

Così l'unità d'Italia si legò indissolubilmente alla casa Savoia, escludendo dalla scena i repubblicani ed i federalisti, i quali avrebbero potuto dare alla nascita della Nazione un'impronta più giusta e conforme alle diverse necessità e culture di un popolo rimasto diviso politicamente per oltre tredici secoli. Probabilmente da ciò sarebbero nati governi e leggi più sensibili ai bisogni delle classi sociali più svantaggiate e delle zone più povere. Ma non fu così. L'Italia dei Savoia nacque non come unione, ma come conquista di un altro territorio e di un altro popolo a cui imporre le proprie leggi e le proprie tasse. Il peso economico delle guerre fu scaricato sulle classi più povere e sul sud, nel quale fallirono quasi tutte le imprese industriali, poiché, nel contesto della politica liberista del governo di Torino, non riuscirono a competere con le industrie del nord e dell'Europa centrale. Chiusero arsenali, fabbriche téssili e di altro genere, mentre ampie porzioni di campagne venivano abbandonate per lo svolgersi della guerra civile e per l'istituzione della leva, sprofondando nella più nera miseria tutto il sud. Da qui nacque la questione meridionale, trasformando il meridione nella zavorra d'Italia.

 

IL GARIGLIANO

 

Il nuovo comandante generale

Abbandonate le posizioni sul Volturno, a parte Capua, Francesco II e il suo governo inviarono una lettera a Ritucci in cui suggerivano un piano per dar battaglia ai piemontesi, sfruttando le forti posizioni fra Sessa e il Garigliano. Anche questa volta il comandante napoletano respinse le pressione per un'offensiva. Una battaglia campale, con la quale infliggere una dura sconfitta ai piemontesi, rimaneva l'ultima speranza per poter capovolgere la disperata situazione della causa borbonica.

Così, il 23 ottobre, Francesco II sostituì il prudente Ritucci con il gen. Giovanni Salzano de Luna, napoletano settantenne, veterano murattiano che aveva combattuto nello sbarco di Capri del 1808, nel tentato sbarco in Sicilia del 1810, nelle campagne d'Italia del 1814-15; si era distinto nelle campagne di Sicilia del 1820 e del 1849; come comandante della piazzaforte di Capua aveva diretto mirabilmente la difesa dagli spalti il 19 settembre e il 1° ottobre 1860, guadagnandosi la promozione a tenente generale e la croce di commendatore di S. Giorgio. Salzano, pur non avendo grandissime doti di stratega, aveva avuto una condotta decisa nei suoi precedenti comandi: la piazza di Palermo prima e quella di Capua poi. Ma anche lui giunse alla conclusione di dover costituire la nuova linea di resistenza sul Garigliano, rinunciando alla battaglia campale.

 

La politica estera di Francesco II

Intanto Francesco II operava anche sul piano politico, inviando il 24 ottobre un manifesto a tutti i sovrani d'Europa, col quale sottolineava la condotta scorretta e aggressiva del Regno di Sardegna e di suo cugino Vittorio Emanuele II, il quale, dichiarandosi amico, aveva prima sostenuto in segreto Garibaldi, poi aveva invaso le Due Sicilie col suo esercito. Chiedeva, inoltre, aiuto a questi sovrani per recuperare il trono in base ai principi legittimisti cari a tutte le monarchie.

Ma dal convegno di Varsavia giunsero cattive notizie: i propositi interventisti dell'Austria erano stati accolti con freddezza da Prussia e Russia, mentre Napoleone III aveva rifiutato la proposta del primo ministro austriaco Klemens Wengel Lothar, prìncipe di Metternich-Winnenburg, di restaurare i Borbone sul trono di Napoli anche con la forza. Cavour tirò un sospiro di sollievo, e la frontiera sul Mincio non lo preoccupò più, concentrandosi sulla conquista delle Due Sicilie.

 

L'incontro di Teano

Salzano riunì i suoi luogotenenti in consiglio, dove, quasi all'unanimità, si decise di abbandonare Teano, considerata una posizione debole, per schierarsi più a nord fra Cascano e Sessa.

Il 25 ottobre Garibaldi attraversò il Volturno con 5000 uomini che, passando per Bellona e Vitulazio, dove Bixio si ruppe una gamba cadendo da cavallo, si accamparono la sera a Caianello.

Da Venafro giungevano in quella località i piemontesi, al diretto comando di Vittorio Emanuele che, col suo seguito, incontrò Garibaldi il 26 ottobre al quadrivio di Taverna di Catena, tra Caianello e Vairano, dove quest'ultimo salutò il Sovrano al grido di "Viva il Re d'Italia". Poi si diressero a Teano, dove il Re fece intendere che il ruolo militare dei garibaldesi era finito e che l'inseguimento delle truppe borboniche sarebbe stato còmpito del contingente piemontese da affidare al gen. Manfredo Fanti, acerrimo nemico di Garibaldi.

Quest'ultimo, compreso di avere terminato il suo compito, non tentennò a mettersi da parte, ma fece una richiesta al Re per favorire le sue camicie rosse che, al prezzo di tanto sangue, avevano consegnato quasi l'intero Regno delle Due Sicilie alla dinastia dei Savoia: l'integrazione dei garibaldesi nel nuovo Esercito Italiano che stava per nascere. Vittorio Emanuele rispose evasivamente, dimostrando una grande e inopportuna ingratitudine. Così soldati valorosi e quadri di esperimentata efficacia vennero dispersi per la meschina miopìa dei capi dell'esercito piemontese che non intendevano "contaminare" il loro strumento militare con truppe irregolari formate da molti uomini di idee repubblicane. Solo nel 1862, dopo furiose polemiche, sarebbero stati ammessi nell'Esercito Italiano 1854 ufficiali garibaldesi, fra i quali Bixio, Carini, Orsini, Sìrtori, Turr, Médici e Cosenz.

 

Il combattimento di Sessa

Mentre i napoletani erano in fase di ritirata verso il Garigliano, Cialdini tentò di agganciarli nel pomeriggio del 26 ottobre, investendo l'ala sinistra nemica nel villaggio di S. Giuliano, fra Teano e Sessa. Qui erano schierate la 3^ div. del brig. Antonio Echanitz (nato a Nicosia nel 1809) e la brigata del col. Giovanni D'Orgemont, appoggiate dall'artiglieria del neopromosso gen. Negri schierata a Cascano. Dopo essere entrati in contatto con le truppe di Cialdini, circa 10000 uomini, Echanitz e D'Orgemont furono rinforzati dalla brg Polizzy e da quella estera del col. Mortillet che assaltarono lo schieramento nemico di fronte e di fianco, facendolo retrocedere.

A questo punto, non sfruttando il momento favorevole, Salzano fece ritirare le sue truppe dietro il Garigliano, dove le schierò a difesa del fiume. A coprire la ritirata ci pensò la btr n° 10 del cap. Francesco Tabacchi che da Cascano diresse il tiro contro i piemontesi che tentavano di agganciare la retroguardia napoletana.

Lo scontro passò alla storia come combattimento di Sessa, dove i napoletani ebbero una ventina di morti e lo stesso numero di feriti, i piemontesi perdite più gravi.

 

L'assedio di Capua

Nello stesso tempo incominciava l'assedio di Capua, dove era stato inviato a dirigere le operazioni il gen. Enrico Morozzo della Rocca con una parte del V corpo d'armata, circa 6000 uomini, da affiancare ai 12000 garibaldesi già in posizione di fronte alla piazzaforte. Garibaldi, per non creare problemi diplomatici, se ne andò a Napoli a svolgere il suo ruolo di dittatore, lasciando il comando a Sìrtori, il quale avrebbe preso ordini da della Rocca. Quest'ultimo poteva contare su un'ottima artiglieria rigata di grosso calibro e sui lavori del genio diretti dal gen. Luigi Federico Menabréa.

Dopo la nomina di Salzano a comandante generale dell'esercito, al comando della fortezza di Capua era stato posto il neopromosso mar. Raffaele De Corné, suo vice, che poteva contare su 8000 fanti (2° btg gendarmeria, rgt di linea 9° e 10°, più i resti del 2°, 4° e 8°) , su 500 artiglieri appartenenti ad un btg del rgt Regina (l'altro btg si era ritirato a Gaeta) ed alla btr n° 2, sul 1° btg del rgt carabinieri a cavallo, sul 2° squadrone di gendarmeria a cavallo, sul btg zappatori-minatori, sulla 2° direzione del genio, più i reparti servizi, per un totale di circa 10000 uomini. In batteria, oltre a quattro pezzi da campagna, c'erano 240 vecchi cannoni ad anima liscia, con gittata molto più corta di quelli piemontesi. Malgrado la numerosa guarnigione, la fortezza aveva numerosi punti deboli: modestia delle difese esterne; scarse riserve di polvere; vicinanza delle abitazioni civili; vetustà dell'artiglieria.

Il comandante della guarnigione, mar. De Corné, nato a Napoli nel 1796, era un valoroso ufficiale del genio, veterano dell'esercito borbonico siciliano, col quale aveva partecipato alle campagne d'Italia del 1814-15 contro gli eserciti del viceré Eugenio e del re Gioacchino Murat. Nel settembre del 1860 si era guadagnata la croce di ufficiale di S. Giorgio per lo zelo e l'operosità con cui aveva collaborato col comandante di piazza mar. Salzano.

 

Il 28 ottobre della Rocca inviò un'intimazione di resa a De Corné, il quale, dopo aver tenuto consiglio con i suoi luogotenenti, decise per la resistenza.

Nei giorni 28, 29 e 30 i napoletani tentarono tre sortite con il 1° btg carabinieri a cavallo e il 2° squadrone di gendarmeria verso S. Angelo, senza raggiungere, però, risultati significativi.

Il 1° novembre 27 grossi calibri piemontesi cominciarono il fuoco verso Capua. Sparavano da circa tremila metri, protetti da terrapieni e spalleggiamenti, divisi in sei batterie poste in ambedue le sponde del Volturno. L'abitato di Capua, avvolto dal fumo e dalle fiamme, divenne un inferno, provocando paura e disperazione tra i 12000 abitanti. Così il sindaco e l'arcivescovo Cosenza implorarono il gen. De Corné di far cessare questo massacro di civili con la resa. Riunito un nuovo consiglio militare, considerato che i loro vecchi cannoni non riuscivano a contrastare efficacemente il tiro nemico, gli ufficiali si pronunciarono quasi tutti per la resa.

La mattina del 2 novembre De Corné fece alzare la bandiera bianca, inviando un parlamentare a della Rocca per chiedergli l'autorizzazione a mandare una richiesta di resa a Francesco II. Della Rocca rifiutò, chiedendo una resa immediata e ricominciando a bombardare. Nel pomeriggio De Corné firmò la capitolazione. I 10000 napoletani, usciti dalla fortezza con l'onore delle armi, furono inviati in prigionia a Genova.

 

Il combattimento del Garigliano

. Intanto sul Garigliano i napoletani preparavano le difese, scavando trincee, allestendo le postazioni di artiglieria e distruggendo tutti i ponti e i traghetti del Garigliano e del Liri fino a Pontecorvo, in modo da prevenire aggiramenti da est. La chiave della posizione era il ponte ferrato di Minturno, a due chilometri dalla foce, a cui fu tolta la pavimentazione. Il fianco destro dello schieramento napoletano era protetto dalla flotta francese dell'ammiraglio Barbier de Tinan, che teneva lontana la squadra navale di Persano.

Il 27 ottobre Francesco II, accompagnato da Salzano, passò in rassegna la truppa, incoraggiandola alla resistenza. Il Re fu accolto con entusiasmo dai soldati, i quali possedevano ancora molto spirito combattivo. Sul fiume furono schierati il 2° (mag. Castellano), il 3° (mag. Paterna) e il 4° btg cacciatori (mag. Barbera), le quattro cmp scelte del 3° rgt di linea (t. col. Cortada), tre squadroni di lancieri ed uno del 1° rgt ùssari, le btr n° 1, 3, 4 e 6 con trentadue cannoni, più i resti del 14° rgt di linea (col. Zattara) in riserva. Tutto lo schieramento era al comando del mar. Filippo Colonna, valoroso veterano murattiano sessantunenne, discendente da una nobile ed antichissima famiglia romana; appena sedicenne aveva partecipato alla campagna d'Italia del 1815 come sottotenente dei cavalleggeri della guardia; nel 1849 aveva partecipato alla spedizione nello Stato Pontificio, combattendo a Velletri alla testa di un reparto di lancieri e meritandosi le decorazioni ricevute dal Papa, dalla Regina di Spagna, da Napoleone III e dal Granduca di Toscana; nella primavera del 1860, al comando di una brigata, aveva partecipato ai combattimenti nella zona di Palermo; in estate era stato messo al comando della 1 colonnello e il comando del 1° rgt dragoni per merito del primo ministro Filangieri che lo stimava molto.

L'attacco piemontese si sviluppò la mattina del 29 ottobre, quando tre forti colonne di fanteria, protette da cinque squadroni di cavalleria, avanzarono dalla pianura a sud del Garigliano. Nella testa di ponte a sud del fiume c'erano ad attenderli i cacciatori del 2° btg, micidiali tiratori con le loro moderne carabine rigate, i quali, per più di un'ora, riuscirono a contenere valorosamente l'attacco nemico; poi, in ordine, si ritirarono a nord del ponte di Minturno, togliendo le ultime tavole della pavimentazione.

L'assalto al ponte fu portato dai bersaglieri che, con incredibile audacia ed abilità ginnica, tentarono l'attraversamento sulle nudi assi di ferro, sottoposti ad un fuoco infernale di fucileria e dell'artiglieria del gen. Negri. Tre volte attaccarono e tre volte furono respinti, anche grazie all'intervento del gen. Barbalonga che fece schierare la batteria n° 13 ed il 14° btg cacciatori sull'ala sinistra napoletana, in un'ansa del fiume che permetteva di colpire d'infilata gli attaccanti, i quali, sotto il fuoco incrociato, furono costretti a ritirarsi con gravi perdite, inseguiti dal 2° btg cacciatori che fece 40 prigionieri. Sul campo erano rimasti 80 bersaglieri e 11 napoletani, più varie decine di feriti. Fra i caduti c'era il migliore ufficiale dell'artiglieria borbonica, quel prode Matteo Negri passato in due mesi dal grado di maggiore a quello di generale per meriti di guerra.

Negri, nato a Palermo nel 1818, era stato un ufficiale di vivo ingegno, di cultura superiore e di preparazione tecnica non comune. Nella sua carriera si era distinto nella spedizione di Sicilia del 1849, durante la quale era stato gravemente ferito nell'attacco a Catania, venendo decorato con la croce di diritto di S. Giorgio e con la medaglia d'oro della campagna. Il 19 settembre 1860, durante la campagna del Volturno, aveva diretto con valore e perizia i cannoni di Capua, respingendo l'attacco di Garibaldi e guadagnandosi la promozione a colonnello. Appartenente allo stato maggiore del gen. Ritucci, durante la battaglia del 1° ottobre era stato presente dove più infuriavano i combattimenti, conducendo batterie sul campo, sostenendo i soldati, esortando i più demoralizzati; per il valore dimostrato, il Re lo aveva decorato con la croce di commendatore di S. Giorgio e promosso brigadiere. Durante la ritirata dal fronte del Volturno si era distinto nuovamente durante il combattimento di retroguardia di Cascano. Sul Garigliano aveva personalmente organizzato la collocazione delle batterie e diretto il tiro dei cannoni, fino a quando, durante un attacco dei piemontesi, si era appostato, in groppa al cavallo, dietro la btr n° 4 per incoraggiare gli artiglieri; qui era stato prima ferito al piede sinistro, poi, pochi minuti dopo, al ventre; era spirato al tramonto in una casina di campagna di Scauri. Fu, probabilmente, la figura di militare napoletano che più emerse nella campagna del 1860-61, per gli alti sentimenti di fedeltà, di onore e di spirito di sacrificio.

Il combattimento del Garigliano fu l'ultimo episodio incoraggiante per Francesco II, il quale emise un proclama e concesse una medaglia commemorativa della campagna di settembre e ottobre 1860.

 

La ritirata a Mola di Gaeta. Per Cialdini fu uno scacco bruciante, malgrado il grande valore dei bersaglieri. Indubbiamente il Garigliano, difeso da truppe agguerrite e protetto sul fianco dalla flotta francese, rappresentava un ostacolo durissimo. Il problema fu risolto dalla diplomazia. Su pressioni di Torino e  soprattutto di Londra, che si appellavano al non intervento, Napoleone III ordinò all'ammiraglio le Barbier de Tinan di fare arretrare la flotta, limitando la protezione alla sola Gaeta.

La notte fra il 1° e il 2 novembre la squadra navale di Persano avanzò verso la foce del Garigliano e cominciò il bombardamento, cogliendo di sorpresa le truppe napoletane e sconvolgendo i piani di Francesco II che contava sull'appoggio delle navi francesi per sostenere una lunga resistenza sul fiume. Proprio l'argomento delle navi era servito al Re per opporsi alla proposta di Salzano di portare l'esercito sulle montagne per intraprendere una guerra partigiana, come quella opposta all'invasore francese nel 1799 e nel 1806. Ora, sgomento da questa svolta, Francesco ordinò la ritirata la mattina del 2 novembre.

Le truppe borboniche si schierarono in gran parte a Mola di Gaeta (attuale Formia), lasciando in copertura sul ponte di Minturno due cmp del 6° btg cacciatori, al comando del valoroso capitano abruzzese Domenico Bozzelli. La sera la div. Granatieri di Sardegna del gen. de Sonnaz attraversò il fiume su un ponte di barche, agganciando e distruggendo le due cmp di cacciatori, le quali, con estremo valore, si sacrificarono fino all'ultimo uomo per ritardare l'avanzata del nemico e consentire una ritirata indisturbata ai propri commilitoni.

La stessa sera un consiglio di guerra composto dai generali Salzano, Ruggiero, Colonna, Sanchez de Luna, Polizzy, Bertolini e Barbalonga stabilì che, se attaccata da mare, Mola non sarebbe stata difesa, e le truppe si sarebbero ritirate verso Gaeta. Il Re e il ministro della guerra Ulloa, invece, propendevano per inviare l'esercito in Abruzzo, dove avrebbe goduto dell'appoggio attivo della popolazione, per poi operare da lì alle spalle dei piemontesi assedianti Gaeta. Alla fine si decise di inviare alcuni reparti a rinforzare la guarnigione di Gaeta, mentre il grosso si sarebbe ritirato verso Itri, poco all'interno dal golfo di Gaeta.

 

Il combattimento di Mola di Gaeta. Dopo un piccolo scambio di colpi tra le navi piemontesi e l'artiglieria napoletana, avvenuto il 2 novembre, Persano attaccò Mola la mattina del 4 novembre con 14 navi, distruggendo case e strade e provocando il pànico fra la popolazione, che cominciò a fuggire per rifugiarsi nelle grotte. I napoletani rispondevano con il fuoco di cinque cannoni piazzati sulla spiaggia, i quali, però, furono ridotti al silenzio uno dopo l'altro.

Verso le tre pomeridiane avanzarono i granatieri di Sardegna di de Sonnaz, con una colonna verso la collina di Marànola, alle spalle della cittadina, con l'altra colonna verso l'ingresso dell'abitato. Lì erano schierate la brg esteri, al comando del col. de Mortillet (von Mechel, stanco e malato, si era messo in ritiro), in prima linea e la brg Polizzy in seconda; dopo aver ricevuto l'ordine di ritirata, ripiegarono sotto l'infernale fuoco della flotta. La brg esteri, a contatto con i granatieri nemici, oppose scarsa resistenza e, poi, si sbandò. Nella ritirata la confusione fu enorme. Sotto lo scoppio delle granate fuggivano frammischiati nelle strette vie carri, ambulanze, artiglieria, fanti, nonché la popolazione civile che si portava dietro ogni tipo di oggetti e masserizie. Pigiati e urtandosi, si allontanavano dalla cittadina, fra urla, pianti e bestemmie. De Sonnaz non seppe approfittare dello sbandamento del nemico, avanzando con troppa prudenza, quando aveva di fronte ormai solo alcune compagnie del 10° btg cacciatori, al comando del cap. Ferdinando De Filippis, e gli svizzeri della batteria n° 15, costituenti la retroguardia napoletana, i quali opposero una tenace, anche se breve, resistenza, per poi ritirarsi. Fra i caduti del combattimento ci fu lo stesso comandante della batteria, il cap. Enrico Fevot.

 

Resa a Terracina

Una buona parte della truppa napoletana, oltre 17000 uomini al comando del mar. Giuseppe De Ruggiero (napoletano di 68 anni), comandante della cavalleria, si ritirarono a Terracina, in territorio pontificio, per la via di Itri e Fondi. Si trattava dei seguenti reparti: le 4 compagnie scelte del 3° rgt di linea (t. col. Cortada), resti del 14° rgt di linea (col. Zattara), 1° btg cacciatori (mag. Armenio), 5° btg cacciatori (mag. Musitani), 11° btg cacciatori (privo di comandante), 1° e 2° btg carabinieri leggieri esteri (col. De Mortillet), guide dello Stato Maggiore (cap. Capece Galeota), un btg del 1° rgt lancieri (mag. Pollio), un btg del 2° rgt lancieri (mag. Cessari), il 1° rgt dragoni (col. Della Guardia), un btg del 2° rgt dragoni (col. Antonio Russo), il 3° rgt dragoni (col. Rodolfo Russo). Francesco II trattò con il Papa e con il comandante del contingente francese di Roma, gen. Charles Marc Goyon, per fare rimanere di guarnigione nello Stato Pontificio i soldati napoletani. Nel frattempo giunse pure la flotta piemontese e il gen. de Sonnaz che tentò di convincere De Ruggiero ad arrendersi. Il 6 novembre, però, giunse la risposta di Goyon, il quale comunicò che i napoletani potevano trattenersi nello Stato Pontificio a condizione di deporre le armi. De Ruggiero accettò ed ordinò anche alla brg di Klitsche de la Grange di ritirarsi a Terracina per la resa, danneggiando enormemente la causa borbonica negli Abruzzi. I soldati furono inviati a Velletri, dove consegnarono le armi ai francesi, e lì congedati il 26 dicembre 1860. Francesco II pensò ad inviare alcuni ufficiali per salutare e ringraziare la truppa del loro servizio, nonché per consegnargli la liquidazione.

 

L'istmo di Montesecco

Oltre i circa 12000 uomini della guarnigione, davanti a Gaeta, nell'esiguo territorio dell'istmo di Montesecco, ne erano accampati altri 11000, appartenenti ai reparti che, non ubbidendo agli ordini, non si erano diretti su Itri, ma avevano cercato riparo nella piazzaforte, per continuare a combattere per il loro Re. Farli entrare nella fortezza avrebbe ridotto notevolmente le possibilità di resistenza, terminando in breve tempo i viveri. Così Salzano tentò di trattare la resa delle truppe accampate sull'istmo, proponendo di congedarle e farle tornare a casa. Ma il comandante piemontese, gen. Fanti, capendo che quegli uomini sarebbero stati una zavorra per gli assediati, rifiutò, proponendo, invece, delle generose condizioni per la resa di tutte le forze borboniche, Gaeta compresa. Dopo lunghe trattative, si giunse solo ad un accordo per lo scambio di prigionieri, che avrebbe dovuto svolgersi il 12 novembre.

Nel frattempo le truppe napoletane furono schierate a difesa dell'istmo di Montesecco: all'ala destra, nel borgo (bagnato dal mare del golfo di Gaeta), fu destinato il 15° btg cacciatori del t. col. Enrico Pianell (fratello dell'ex ministro della guerra); al centro, sui colli dei Cappuccini e del Lombone, il 14° e il 3° cacciatori; all'estrema sinistra, nei pressi della Torre Viola (bagnata dal mare di Terracina), quattro cmp del 3° btg carabinieri cacciatori esteri, al comando del cap. Johan Rhudolf Hess. In seconda linea furono schierati il 4° cacciatori nel Camposanto e il 6° dal Camposanto al colle Atratino. Nella piana di Montesecco, tra la seconda linea e la fortezza, c'erano accampati il 2°, il 7°, l'8°, il 9° e il 10° cacciatori. I cacciatori a cavallo erano frazionati in tutta la linea. Le batterie n° 11 e 13 entrarono a Gaeta, mentre la n° 10 fu divisa tra il colle dei Cappuccini e il Borgo, con due cannoni per posto.

 

Combattimenti sull'istmo

L'11 novembre vi furono delle importanti defezioni che addolorarono Francesco II: diede le dimissioni il comandante generale dell'esercito Salzano, oltre ai generali Colonna, Barbalonga e Polizzy (von Mechel si era già ritirato per motivi di salute). Al comando delle forze mobili fu, così, destinato il gen. Vincenzo Sanchez de Luna e capo del suo stato maggiore lo svizzero mag. Aloisio Migy.

La stessa sera i piemontesi attaccarono, tentando di espugnare l'importante posizione di colle Lombone. Dopo tenace resistenza, il 14° btg cacciatori si ritirò. Lo stesso Francesco II incaricò il cap. Sinibaldo Orlando per la riconquista. La mattina del 12 novembre, guidando all'assalto la metà del 14° cacciatori, Orlando riprese il colle, catturando anche 15 prigionieri. Per questa valorosa azione il capitano fu promosso maggiore sul campo dal Re in persona, che decorò anche otto ufficiali e sessanta tra sottufficiali e soldati del 14° cacciatori.

Dopo questo combattimento ebbe inizio la tregua per lo scambio di prigionieri, ma i piemontesi, non mantennero la parola, alle 9 del mattino attaccarono il centro e la sinistra napoletani. Mentre in quella zona si combatteva, sulla destra il t. col. Pianell creò una falla sulla prima linea, consegnando il suo 15° btg cacciatori al nemico ed emulando il tradimento del suo fratello ministro; solo 8 ufficiali e 78 soldati riuscirono a fuggire verso Gaeta. Col fianco destro scoperto, il 3° btg cacciatori, attaccato da forze superiori, fu costretto ad abbandonare il colle dei Cappuccini, ritirandosi sul piano di Montesecco. Il gen. Sanchez de Luna, che guidava le riserve, ordinò al 3° di riprendere il colle, e questo lo riprese dopo aspri combattimenti; infine, però, circondato dal nemico, dovette abbandonare definitivamente la posizione, aprendosi un varco e ritirandosi sotto la fortezza. Tre compagnie del 3° rimasero prigioniere per lo scarso coraggio dell'aiutante maggiore del btg, il cap. Guglielmo Santacroce.

All'estrema sinistra, a Torre Viola, le quattro cmp estere furono attaccate da tre btg piemontesi. Non coperti dall'artiglieria dal gen. Rodrigo Afan de Rivera, i carabinieri esteri furono decimati. Su circa 400 uomini, solo 130 riuscirono a rientrare a Gaeta. Fra i prigionieri ci fu anche il loro comandante, cap. Hess.

Sanchez, intanto, riusciva a contenere i pressanti attacchi piemontesi sul Lombone con il 4°, il 10°, il 14° e quattro cmp del 2° btg cacciatori. Stessa situazione al Camposanto, dove reggevano i btg cacciatori 7°, 8° e 9°. Dopo circa nove ore di combattimenti i soldati napoletani, sfiniti e digiuni, furono autorizzati dal Sovrano a ritirarsi dentro le mura.

I combattimenti del 12 novembre erano costati ai borbonici 74 caduti (fra i quali 3 ufficiali) e 43 feriti (7 ufficiali), più oltre 1000 fra prigionieri e disertori. I piemontesi avevano conquistato tutte le posizioni esterne alla fortezza, dando inizio all'assedio. All'interno di Gaeta una troppo numerosa guarnigione, 1770 ufficiali e 19700 sottufficiali e soldati, si apprestavano a difendere l'ultimo baluardo del loro Re.

 

Liquidazione dell'Esercito Meridionale

Mentre tra il Garigliano e Gaeta si combatteva, a Napoli si verificava uno dei più gravi episodi di ingratitudine che la storia conosca: la liquidazione dell'Esercito Meridionale e del suo comandante, il gen. Giuseppe Garibaldi, anima ed esecutore di un'impresa ritenuta impossibile, come la conquista di un Regno con un pugno di uomini.

Il 6 novembre era in programma la più importante cerimonia per i garibaldesi: il Re in persona avrebbe dovuto passare in rivista i reduci, schierati, fin dal mattino, nella spianata davanti al palazzo reale di Caserta. Dopo una lunga attesa giunse la notizia che Vittorio Emanuele II era stato trattenuto da altri impegni. Malgrado questa incredibile mancanza di riguardo, l'indomani Garibaldi da vero giannizzero,accompagnò il Re a Napoli per l'ingresso solenne nella capitale del Regno.

L'8 novembre Garibaldi passò le consegne al nuovo luogotenente per i territori delle Due Sicilie, il suo acerrimo nemico Luigi Carlo Farini. Il 9, dopo aver rifiutato il collare dell'Annunziata (massima onorificenza sabauda), il grado di maresciallo ed una ricca pensione, Garibaldi si imbarcò mesto e deluso, ritirandosi nella sua povera dimora di Caprera, un isola  intera a titolopersonale.

Il 26 novembre il governo di Farini sciolse i reparti garibaldesi, inviando tutti a casa con sei mesi di paga. Così furono messi da parte i protagonisti dell' impresa dei Mille, della conquista del Regno delle Due Sicilie, della caduta della dinastia borbonica di Napoli.

 

 

 

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REGNO DELLE DUE SICILIE - ULTIMO ATTO

( anno 1860 )

LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO

 

SITUAZIONE DEL REAL ESERCITO BORBONICO NEL SETTEMBRE DEL 1860

Reparti sul Volturno:

 

- 1^ Div. Leggera (gen. Colonna)

brg Barbalonga: 2° btg Cacciatori (t. col. Castellano), 11° btg Cacciatori (t. col. De Lozza), 14° btg Cacciatori (t. col. Vecchione), 15° btg Cacciatori (t. col. Pianell), btr n° 11 (cap. Tacinelli);

brg La Rosa: 1° btg Cacciatori (mag. Armenio), 3° btg Cacciatori (t. col. Paterna), 4° btg Cacciatori (t. col. Della Rocca), 6° btg Cacciatori (cap. Luise), btr n° 5 (cap. Pacca).

 

- 2^ Div. Guardia Reale (gen. Tabacchi)

brg Marulli: 1° rgt Granatieri (t. col. Delitala), 2° rgt Granatieri (col. Grenet), btr n° 1 (cap. Antonelli);

brg D'Orgemont: 3° rgt Cacciatori (t. col. Pescara), btg Tiragliatori (t. col. Ferrara), btr n° 10 (cap. Tabacchi);

brg Ruiz: 2° rgt Linea (mag. De Francesco), 4° rgt Linea (col. Marra), 6° rgt Linea (mag. Nicoletti), 8° rgt Linea (mag. Coda), btr n° 6 (cap. Iovene).

 

- 3^ Div. Leggera (gen. Afàn de Rivera)

brg Polizzy: 7° btg Cacciatori (t. col. Tedeschi), 8° btg Cacciatori (t. col. Nunziante), 9° btg Cacciatori (mag. Scappaticci), 10° btg Cacciatori (t. col. Capecelatro), btr n° 13 (cap. Sanvisente);

brg von Mechel: 1° btg Carabinieri Leggieri (t. col. Goldlin), 2° btg Carabinieri Leggieri (t. col. Migy), 3° btg Carabinieri Cacciatori (mag. Gachter), btr Estera n° 15 (cap. Fevot).

 

- Div. Cavalleria (gen. Palmieri)

brg Cavalleria Pesante Echanitz: 1° rgt Dragoni (col. Della Guardia), 1° btg del rgt Carabinieri a Cavallo (col. Puzio); ), btr a cavallo (cap. Errico Afàn de Rivera).

brg Cavalleria Pesante R. Russo: un btg 2° rgt Dragoni (col. A. Russo), 3° rgt Dragoni (col. R. Russo);

brg Lancieri Sergardi: un btg del 1° rgt Lancieri (col. Pironti), un btg del 2° rgt Lancieri (col. Mc Donald), btr n° 3 (cap. Corsi).

 

- Guarnigione della piazzaforte di Capua:

brg De Cornè: 9° rgt Linea (Girolamo De Liguoro), 10° rgt Linea (col Tosi), 2 sezioni della btr n° 2 (cap. De Rada);

reparti tecnici: 2^ Direzione del Genio (brig. Colucci), btg Zappatori-Minatori (t. col. Balzani), rgt Artiglieria Regina (col. Ferdinando Pacifici);

Gendarmeria: 2° btg (t. col. D'Ambrosio) e 2° squadrone.

 

- Reparti a disposizione dell'Armata del Volturno: 5° btg Cacciatori (mag. Musitani), 1° rgt Ussari della Guardia Reale (col. Giovanni De Liguoro), 2° rgt Ussari della Guardia Reale (col. Dentice), rgt Cacciatori a Cavallo (col. Sanchez de Luna), Guide dello S. M. (cap. Capece Galeota), btg Treno (mag. Della Valle).

 

Reparti a Gaeta:

 

- brg di Guarnigione: 1° rgt Linea (t. col. Auriemma), 4 cmp scelte del 3° Linea (t. col. Cortada), 4 cmp scelte del 5° Linea (mag. G. Marra), 4 cmp scelte del 7° Linea (mag. Pino), btg Veterani Svizzeri (mag. Aufdermauer), una parte del btg Pionieri del Genio (col. Salmieri), rgt Artiglieria Re (col. Melograni).

 

Reparti negli Abruzzi:

 

- Guarnigione del fortino di Civitella del Tronto (mag. Ascione): tre cmp del 3° btg Gendarmeria (cap. Giovane), una cmp del rgt Reali Veterani, una sezione artiglieri litorali, soldati sbandati di vari corpi;

- brg Volontari Borbonici (col. Klitsche de la Grange): 1° btg Volontari Siciliani, 2°, 3° e 4° volontari Abruzzesi).

 

Reparti della Piazzaforte di Messina:

 

- Guarnigione (gen. Fèrgola): 8 cmp fucilieri del 3° Linea (col. Aldanese), 8 cmp fucilieri del 5° Linea (col. Cobianchi), 8 cmp fucilieri del 7° Linea (col. Anguissola), 8^ Direzione del Genio (col. De Nunzio), 13^ Direzione d'Artiglieria (col. Guillamat), reparti servizi vari.

 

LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO

 

Lo schieramento garibaldese

La linea garibaldina era un semicerchio con la curvatura rivolta a nord; al centro del diametro che ne costituisce la base c'è Caserta, dove Garibaldi collocò, con scelta felice, una forte riserva. All'estremo ovest erano poste le difese garibaldine di S. Tàmmaro e S. Maria Capua Vétere, costituite dalla divisione del vecchio generale polacco Alessandro Milbitz. A nord-ovest, nella parte alta del semicerchio, la divisione di Giacomo Medici era schierata in forti posizioni collinari a S. Angelo e, in rinforzo a questa, era giunta l'incompleta divisione del gen. Giuseppe Avezzana, sessantatreenne veterano murattiano. Medici aveva, anche, distaccato la brg del gen. Achille Sacchi più a est, a presidiare il monte Tifata. A nord-est c'era soltanto un piccolo distaccamento di 295 garibaldini, appartenenti al 1° btg bersaglieri al comando del mag. Pìlade Bronzetti, che dal 28 settembre occupava l'altura coronata dalle rovine del castello di Morrone. All'estremità est una divisione al comando dello spietato e ardito genovese Nino Bixio difendeva Maddaloni e la strada che, dal bivio dei Ponti della Valle, conduce a Caserta. La riserva di Caserta, quartier generale, era costituita dalle brigate dell'inglese Ferdinando Eber, di Azzanti, del calabrese Pace e la Milano di Giorgis., tutte al comando di Turr.

 

Lo schieramento napoletano

Il piano napoletano prevedeva due grandi direttrici d'attacco: la prima ad ovest, con base a Capua, contro S. Tàmmaro e S. Maria (3^ div. Tabacchi, privata della brg Ruiz, con circa 5000 uomini), e contro S. Angelo (brg Polizzy e Barbalonga, 8000 uomini al comando del gen. Afan de Rivera ), al diretto comando del mar. Ritucci; la seconda ad est, contro Maddaloni e in direzione di Caserta (8000 uomini al comando del gen. von Mechel, divisi nelle brg esteri e Ruiz). La riserva (circa 4000 uomini), 4 btg cacciatori al comando del gen. Colonna, era schierata lungo il Volturno, da Capua a Caiazzo.

 

L'attacco

La sera del 30 settembre Garibaldi, perfettamente a conoscenza del piano nemico, per le delazioni di ufficiali borbonici  traditori  ispezionò la prima linea, incoraggiando gli uomini, e conferì con i comandanti di divisione, dandogli le ultime disposizioni.

Il 1° ottobre era di lunedì. I garibaldesi scherzavano sul fatto che questo era il giorno in cui i napoletani attaccavano, sospinti dalle preghiere e dagli incitamenti dei cappellani nella messa della domenica precedente: e questa volta avevano proprio ragione. Francesco aveva inviato alle truppe un proclama, invero tra i meno felici, troppo umanitario per essere diretto ad uomini che avrebbero dovuto uccidere. Comunque rimase per tutto il tempo in prima linea, al fianco di Ritucci.

La mattina del 1° ottobre, alle tre e mezza, uscivano le truppe da Capua per assalire il nemico. A S. Maria i garibaldesi degli avamposti di Milbitz, schierati al cimitero ed ai Cappuccini, udirono il ràuco grido di "viva 'o Re" e videro emergere da una fitta bruma i soldati napoletani, decisi a consumare la loro vendetta per le umiliazioni patite in Sicilia e Calabria. Si erano fatte le cinque circa e i garibaldini, a questa vista, si ritirarono prontamente dietro la scarpata della ferrovia e le barricate rafforzate nei giorni precedenti, protetti da due piccole batterie servite da artiglieri piemontesi e marinai inglesi.

 

A sferrare il primo attacco su S. Maria furono le truppe del mar. Luigi Tabacchi, foggiano sessantanovenne. Fu un grosso errore affidare il settore principale del fronte a questo ufficiale privo di esperienze belliche, che aveva percorso tutta la sua carriera nei granatieri della guardia, in un'atmosfera ovattata lontana dai campi di battaglia. Per l'assalto Tabacchi dispose la sua divisione su due colonne: a destra la brg del col. Giovanni D'Orgemont, a sinistra il 1° rgt granatieri della guardia, al comando del col. Gennaro Marulli; di riserva a Capua rimase il 2° rgt granatieri della guardia al comando del col. Carlo Grenet. D'Orgemont, però, sbagliò direzione, costringendo Marulli ad occupare frettolosamente le sue posizioni, muovendo verso l'anfiteatro; la brg D'Orgemont, invece, avanzò verso il convento dei Cappuccini.

Sull'estrema ala sinistra garibaldese, S. Tàmmaro e Carditello, erano stati inviati quattro squadroni di lancieri, appartenenti al btg Pollio del 1° rgt e al btg Cessari del 2°, al diretto comando del brig. Fabio Sergardi, e l'artiglieria, al comando del prode col. Matteo Negri (lo stesso promosso per i combattimenti di Capua).

 

S. Tàmmaro e S. Maria

D'Orgemont lanciò in avanguardia 4 compagnie del btg tiragliatori al comando del t. col. Raffaele Ferrara, sostenute dal 2° btg cacciatori della guardia condotto dal t. col. Giovanni De Cosiron. I tiragliatori, avanzanti in ordine aperto, tentarono la conquista del camposanto di S. Maria, ma furono respinte con gravi perdite, fra le quali quella del valoroso cap. Giuseppe De Mollot. L'intervento del btg condotto con bravura e coraggio da De Cosiron, spinse i garibaldesi fino alle porte di S. Maria. A questo punto De Cosiron dovette lasciare l'onore del colpo di grazia al 1° btg cacciatori della guardia reale, condotto direttamente dal col. D'Orgemont. L'assalto contro il convento dei cappuccini fu un fallimento; i cacciatori reali avanzarono tirando fucilate all'impazzata, mettendo in pericolo gli uomini di De Cosiron. Preso sotto tiro dall'artiglieria nemica, D'Orgemont inviò al camposanto il giovanissimo ten. Giovanni Giordano (pescarese di 22 anni) con la sua sezione di cannoni della btr n° 1, per controbattere le cannonate dei garibaldesi; ma la posizione era troppo avanzata e scoperta, così la sezione fu spazzata via dal tiro d'infilata nemico. Giordano, colpito dalla mitraglia, fu tra i primi a morire. I due battaglioni del 3° rgt cacciatori della guardia furono costretti a ritirarsi precipitosamente senza protezione, il che causò molte perdite. L'artiglieria garibaldese era infatti ben diretta da ufficiali napoletani traditori e disertori, con artiglieri piemontesi ed inglesi.

 

Intanto Negri era riuscito a scacciare i garibaldesi da S. Tàmmaro, questi ultimi al comando di Enrico Faldella, schierando la sua artiglieria in appoggio della colonna che stava assaltando l'anfiteatro difeso dalla brg La Masa (2° rgt di Malenchini, rinforzato dagli uomini di Faldella in ritirata da S. Tàmmaro). Alla guida degli attaccanti c'era un preparato e coraggioso ufficiale, il col. Gennaro Marulli, napoletano cinquantaduenne, che si era comportato con valore a Palermo alla testa del 9° rgt di linea, col quale aveva difeso porta Maqueda, dove era stato gravemente ferito. Decorato al valore, ancora convalescente era stato posto alla testa della brg granatieri della guardia. Gli assalti dei suoi granatieri, appoggiati da due sezioni della btr n° 1 (cap. Pasquale Antonelli), condotti con grande coraggio e senza molto riguardo per le perdite umane, si infransero contro le barricate nemiche per tutta la mattinata. La guardia reale era rimasta ancorata ad antichi schemi di combattimento, operando a ranghi compatti e, quindi, esponendosi al tiro nemico, senza riuscire a sfondare il fronte. La difficoltà dei granatieri ad avanzare in ordine aperto portò, come conseguenza, a gravi perdite, soprattutto a causa del tiro a mitraglia nemico.

 

Viste le difficoltà a sfondare, il mar. Tabacchi gettò nella mischia anche la riserva, costituita dal 2° rgt granatieri del col. Grenet; ma era ancora troppo presto, e la riserva, bruciata in questa occasione, sarebbe mancata nella nuova offensiva ordinata da Ritucci nel pomeriggio. Alle 8 del mattino, i granatieri, dopo aspri combattimenti, cominciarono ad indietreggiare, nonostante Marulli, col suo braccio ancora fasciato, incitasse in ogni modo i suoi soldati. A quel punto giunsero sul campo di battaglia il Re ed i suoi fratelli, incoraggiando i soldati per un nuovo vigoroso attacco. Rinforzato da quattro compagnie del 10° rgt di linea (mag. Luigi Sorrentino D'Afflitto), di guarnigione a Capua, il col. Marulli guidò un nuovo attacco che, dopo un'ostinata resistenza delle truppe del siciliano La Masa, riuscì a sfondare proprio con le compagnie del 10° che si attestarono nelle prime case di S. Maria, presso porta Capuana.

 

S. Angelo

Nel settore di S. Angelo dirigeva l'offensiva il mar. Gaetano Afàn de Rivera, palermitano quarantaquattrenne, appartenente ad una famiglia di origine spagnola di militari, devotissima ai Borbone. Aveva dimostrato coraggio e senso del dovere nella campagna di Sicilia del 1848-49, dove era stato decorato con la medaglia d'oro e la croce di diritto di S. Giorgio, guidando in battaglia il 4° btg cacciatori; ma i tempi erano cambiati, e Afàn de Rivera fu la causa principale della mancata vittoria in quel fronte.

Aveva alle sue dipendenze due ottimi comandanti di brigata: il brig. Gaetano Barbalonga, quarantacinquenne di Palermo, decorato per i combattimenti in Calabria nel 1849, come capitano del 6° rgt Farnese; il col. Vincenzo Polizzy, quarantasettenne anch'egli palermitano, brillante ufficiale d'artiglieria, decorato due volte nella campagna di Sicilia del 1848-49.

La prima brigata che egli scagliò all'attacco fu quella di Polizzy, formata dai btg cacciatori 7°, 8°, 9° e 10°, dalla btr n° 13 e da uno squadrone del 1° rgt ùssari; la brg Barbalonga rimaneva di riserva pronta a sostenerla. Nel fronte opposto il gen. Medici, che comandava in questa zona truppe fra le più addestrate dell'Esercito Meridionale, aveva rafforzato le già ottime difese naturali costituite dal terreno collinoso e dalle pendici dell'alto monte Tifata, fortificando le diverse case e ville sparse sui declivi, nonché l'entrata del paese di S. Angelo, appostando i cannoni nelle posizioni migliori. Di fronte, però, aveva i migliori soldati del Real Esercito Borbonico, quei cacciatori che a Calatafimi ed a Milazzo erano stati molto vicini a prevalere, e che la vigliaccheria dei loro generali li aveva privati della vittoria. Ora quegli uomini gettavano nella lotta tutto il loro disperato desiderio di vendetta ed il loro comprovato valore. Alle cinque del mattino furono i cacciatori del 10° btg, al comando dell'anziano t. col. Luigi Capecelatro, napoletano di 58 anni e veterano della campagna di Sicilia del 1848-49, ad aprire il fuoco, avanzando in avanguardia sulla strada consolare al grido di "viva 'o Re". Dalla casina Longo i garibaldesi decimarono quel battaglione con una batteria di otto cannoni servita dai marinai inglesi della fregata Renown, ferma a Castellammare; i cacciatori, avendo avuto già 41 caduti e 61 feriti (tra questi ultimi il comandante Capecelatro) furono costretti alla ritirata. Avanzarono allora l'8° (t. col. Antonino Nunziante) e il 9° btg (mag. Giuseppe Scappaticci) ed alla casina Longo si accese una lotta cruenta, corpo a corpo, nella quale fu usata ogni arma, dal piombo alla baionetta, dal calcio del fucile alle pietre, dai pugni ai calci. A questo punto intervenne anche la brg Barbalonga, costituita dai btg cacciatori 2°, 11°, 14° e 15°, da 4 compagnie del btg tiragliatori e dalla btr n° 11, lanciando in avanti l'11° btg del t. col. Federico De Lozza, mentre il 15° del t. col. Errico Pianell effettuava un'azione di supporto, attaccando i nemici piazzati nei pressi del bosco di S. Vito e mettendoli in fuga. Ad espugnare la casina Longo, conquistando la cima del monte Tifata, fu il valoroso capitano dell'11° Ferdinando Campanino, napoletano quarantottenne, che alla guida di un pugno di uomini si impadronì del fortino nemico, catturò i cannoni e fece alcuni prigionieri.

 

Per riconquistare la cima Medici tentò un contrattacco che fu respinto, in particolare, dai btg 8°, 7° e 2° cacciatori. Un nuovo contrattacco garibaldino fu appoggiato, sulla destra borbonica, da due btg della div. Avezzana, mentre l'artiglieria di Medici fulminava i cacciatori del 9°, che erano i più avanzati, dalla cima del monte S. Angelo.

Con alla testa il 9° btg cacciatori, Polizzy scatenò un furioso assalto contro quel monte, conquistando le posizioni fortificate una per volta e dopo un bagno di sangue. Il rgt lombardo del col. Simonetta e i due btg del gen. Avezzana furono costretti a ritirarsi. Ultimo ostacolo di fronte all'avanzata napoletana era un btg ungherese, attestato nel centro abitato di S. Angelo che, dopo valorosa resistenza, fu scacciato. Entrati nel paese, i napoletani si gettarono sui magazzini viveri del nemico, mangiando e sparando nello stesso tempo. Infatti, i poveri soldati erano stati lasciati a digiuno dalla loro disorganizzata sussistenza.

Vista la situazione vittoriosa a S. Angelo, il mar. Afàn de Rivera avrebbe dovuto scagliare la sua divisione contro il fianco della posizione garibaldese di S. Maria, sostenendo l'attacco frontale della div. Tabacchi; ma egli non diede alcun ordine, anzi, si rese irreperibile. Altro neo della sua divisione fu la defezione del comandante del 9° btg cacciatori, il mag. Giuseppe Scappaticci, cinquantenne di Gaeta, che, lasciando i suoi uomini senza guida, si rifugiò a Capua.

 

Garibaldi al fronte

La brg cacciatori, magnificamente diretta da Polizzy, aveva conquistato tutte le posizioni di S. Angelo, appoggiata dalla brg Barbalonga. Colti dal pànico, molte camicie rosse fuggirono via. Ormai gli uomini di Medici, persa S. Angelo, erano aggrappati disperatamente alle asperità che separavano i napoletani dalle cime dei monti, superati i quali, essi avrebbero potuto dilagare nella pianura per tagliare le comunicazioni tra Caserta e Capua.

La mattina Garibaldi era sfuggito per il suo stellone alla morte o alla cattura. Egli si trovava a S. Maria, quando, sentiti aumentare i rumori della battaglia verso nord, si era diretto verso S. Angelo in carrozza. Sulla strada fu attaccato da alcuni cacciatori dell'11° btg che uccisero il cocchiere e crivellarono di colpi la carrozza. Scesi dal mezzo di trasporto, Garibaldi e i suoi aiutanti furono immediatamente soccorsi dai carabinieri genovesi di Mosto e dai lombardi di Simonetta, i quali contrattaccarono respingendo il nemico.

 

Maddaloni

Contemporaneamente all'avanzata su S. Maria e S. Angelo, ad est si muoveva la colonna di von Mechel, formata da 8000 uomini. Come militare von Mechel era un valoroso dotato di solidi principi e di un forte coraggio personale, ma non era altrettanto valido come stratega e, per di più, era superbo ed indisciplinato. Invece di procedere con tutta la forza, senza avvertire Ritucci, il generale svizzero la divise. Diede i rgt di linea 2°, 4° 6° e 8° (5000 uomini) al col. Ruiz de Ballestreros, con l'ordine di muovere da Caiazzo verso Caserta Vecchia, punto previsto per riunire tutte le forze con le quali attaccare Caserta. Lasciò i resti del 14° rgt di linea al comando del col. Carlo Zattara a presidiare il ponte sul Volturno nella zona di Caiazzo. Più ad est von Mechel, partendo da Amorosi con il 1° (mag. Francesco Saverio Goldlin) e il 2° btg carabinieri leggeri (mag. Aloisio Migy), il 3° btg carabinieri cacciatori (mag. Eugenio Gachter), le btr n° 10 e 15 (estera) e due squadroni di ùssari, si diresse verso Maddaloni. Sùbito a nord di questo paese si estende un terreno montagnoso e irregolare, dominato dai maestosi Ponti della Valle di Maddaloni, altissimi archi dell'elegante acquedotto vanvitelliano che portava le acque ai giardini del parco reale di Caserta. Bixio aveva occupato tutte le alture strategicamente vantaggiose, schierando un btg di soldati piemontesi in “congedo provvisorio” sui Ponti della Valle, rinforzati da una batteria.; la brg di Carlo Ebherardt ad est, sul monte Longano; il btg di Spinazzi al centro; la brg del col. Giuseppe Dezza ad ovest, sul monte Caro; in riserva la brg di Nicola Fabrizi, situandola sull'eremo del Salvatore, a presidiare la via per Maddaloni.

 

Mechel divise la sua brg in tre colonne e, alle otto antimeridiane, investì monte Lungano, monte Caro e i Ponti della Valle. Un buon numero di mercenari rifiutò di avanzare; malgrado ciò, Mechel scatenò l'attacco. La brg Ebherardt, dopo duri combattimenti, cedette di schianto, fuggendo disordinatamente. Proprio in questo settore, sul monte Lungano, cadde il cap. Emil von Mechel, figlio unico del generale. Al centro, lo stesso gen. Mechel espugnò i Ponti della Valle, mentre sul passo del monte Caro le tre cmp di presidio, al comando del mag. Cesare Boldrini, furono ricacciate indietro dopo una tenace resistenza; aperto il passo, i reparti garibaldesi di Dezza fuggirono, decimati dall'artiglieria regia validamente diretta dal cap. Francesco Tabacchi per la btr n° 10 e dal cap. Errico Fevot per la btr n° 15. A cedere furono, soprattutto, i btg formati da siciliani e napoletani, i quali giunsero fino a Napoli. Resse, invece, il btg di Menotti Garibaldi, posto a presidio del poggio della Siepe, contrafforte di monte Caro. Nella cima del monte Calvo, magnifica posizione strategica, si piazzò l'artiglieria di Mechel con due cannoni da montagna, pronti a colpire le posizioni garibaldine più in basso; fu però ricacciata dal btg del mag. Rainero Taddei.

Bixio, pressato dal nemico, fu costretto ad arretrare fino a villa Gualtieri, abbandonando numerosi cannoni. A questo punto Mechel, affranto per la morte del figlio, si fermò per fare riposare gli uomini e per attendere l'arrivo della brg Ruiz, perdendo una buona occasione per dare il colpo di grazia alla div. Bixio.

 

Castelmorrone

Nel frattempo Ruiz marciava lentamente, senza curarsi di tenere i contatti con Mechel. Aveva ai suoi ordini il 2° rgt di linea (rinforzato dai resti del rgt carabinieri) del t. col. Pietro De Francesco, il 4° rgt (rinforzato dai resti dei rgt 11°, 12°, 13° e 15°) del col. Andrea Marra, il 6° rgt del t. col. Domenico Nicoletti, l'8° rgt del mag. Vincenzo Coda e metà della btr n° 6 al comando del cap. Giuseppe Iovene. Inviò a occupare Limàtola il 6° rgt e alcune cmp del 2° (mag. Pietro De Francesco) e del 4° (mag. Musso), mentre egli, col resto della brigata, proseguiva per l'Annunziata in direzione di Caserta. Le truppe del t. col. Nicoletti, circa 1500 uomini, scacciarono i garibaldesi da Limàtola; poi, però, andarono ad impattare su Castelmorrone, nel cui eremitaggio, in cima al monte, si erano arroccati i 295 garibaldesi del 1° btg bersaglieri del mag. Pìlade Bronzetti. I napoletani avrebbero potuto continuare la loro marcia, lasciando indietro questo insignificante presidio, ma Nicoletti ricevette  dal col. Ruiz l'ordine incomprensibile di conquistarlo.

I borbonici lentamente ascesero il monte in modo da precludere ai garibaldesi ogni ritirata ed alle 11 iniziò il combattimento. Diedero inizio all'assalto i fanti del 6°, inerpicandosi per il monte Morrone sotto il fuoco nemico. Di rincalzo intervennero i fanti del 2° e, poi, quelli del 4°. Dopo cinque ore di combattimento, alle 4 del pomeriggio, i borbonici riuscirono a sfondare le ultime difese della guarnigione garibaldese, notevolmente ridotta di numero e rimasta senza munizioni, tanto da doversi difendere scagliando sassi e con le baionette. Bronzetti, avendo raggiunto l'obiettivo di ritardare notevolmente la marcia nemica e per evitare un'immane strage, prese una tovaglia bianca e cominciò ad agitarla per dichiarare la resa, ma nella confusione del combattimento non fu sentito; sicché, infuriatosi, abbandonò il drappo e si mise a menar di sciabola e, dopo essere stato ferito al collo, fu colpito da una palla al petto e cadde morto. La morte del comandante garibaldese segnò la fine del combattimento. Sul terreno rimanevano 16 caduti garibaldini e 4 napoletani. Grandissimo fu il numero dei feriti e 220 i prigionieri invasori.

 

Ruiz, sentito tuonare il cannone verso Maddaloni, invece di dirigersi in aiuto di Mechel, continuò lentamente la sua marcia verso Caserta. La sera, dopo aver scambiato qualche fucilata con l'avanguardia della brg Sacchi, si accampò a Caserta Vecchia, senza informarsi sulla posizione di Mechel e sulla battaglia combattuta ai Ponti della Valle.

La colonna di Nicoletti, intanto, conquistato Castelmorrone, proseguì verso Caserta, secondo gli ordini ricevuti da Ruiz. Presso S. Léucio sbaragliò un presidio di garibaldesi, giungendo, poi, a Caserta Vecchia, dove si riunì al resto della brigata.

 

Garibaldi utilizza le riserve

La battaglia continuava pure ad ovest. A S. Tàmmaro, rioccupata dalle camicie rosse, gli squadroni di lancieri del gen. Sergardi caricarono, appoggiati dalla btr n° 3 del cap. Carlo Corsi, rompendo le barricate difese dai garibaldesi del rgt Fardella, conquistando il paese e facendo numerosi prigionieri. Il fianco sinistro di S. Maria era scoperto e, in tutto il fronte, i napoletani avanzavano vittoriosi.

A questo punto fu la sfacciata fortuna e il carisma di Garibaldi a capovolgere la situazione, facendo intervenire le riserve nel punto giusto al momento giusto, sfruttando, così, i notevoli errori dei generali nemici. Inoltre stette sempre in prima linea, dove la battaglia era più dura, incoraggiando gli uomini e guidandoli personalmente al contrattacco. In molti casi garibaldesi sbandati ed impauriti, alla vista di Garibaldi sotto il fuoco nemico, tornavano indietro per combattere.

Garibaldi, visto che S. Angelo era stato perso e che la strada S. Maria-S. Angelo era presidiata dal nemico, torno a Caserta per la campagna, chiedendo al capo di stato maggiore Sìrtori l'intervento delle riserve, le quali giunsero velocemente a S. Maria grazie alla ferrovia.

Alle due del pomeriggio, pressato da forze superiori, il 10° rgt di linea abbandonò i sobborghi della suddetta cittadina, ripiegando con ordine verso Capua.

Garibaldi schierò i rinforzi: una parte della brg Azzanti nel centro abitato di S. Maria; sulla strada S. Maria-S. Angelo furono schierati, con fronte ovest, la brg Milano, la Eber, i calabresi di Pace e, in riserva, il resto della brg Azzanti.

 

Avanti la guardia!

Intanto il Re, visto il successo tattico di S. Tàmmaro, ordinò a Ritucci di impiegare la guardia reale contro S. Maria. Così il 1° e il 2° rgt granatieri della guardia furono mandati all'assalto. Quando nelle battaglie napoleoniche si gridava "Avanti la guardia!" la vittoria aveva sempre arriso alle armi francesi. Ma la guardia napoletana non aveva nulla in comune con quella imperiale. Era formata da giovanotti alti e di bella presenza, fortemente raccomandati per entrare in quel corpo privilegiato; buoni, per lo più, alle parate di Fuorigrotta. Già scossi dai combattimenti della mattina, i granatieri avanzarono verso S. Maria sparacchiando e, accolti dalla mitraglia dei cannoni di Milbitz, si sbandarono, fuggendo in preda al pànico, nonostante gli sforzi del mag. Nicola Cetrangolo che comandava il battaglione di punta. Inutile fu, anche, l'intervento dello stesso Re che si gettò nella mischia, tentando di incoraggiarli. Nell'episodio si distinse il cap. Antonelli che, dirigendo la btr n° 1, protesse la disordinata ritirata.

Deluso dal comportamento dei più lustri soldati del Regno, Francesco ordinò la carica della cavalleria, seguita dal 9° rgt di linea Puglia del col. Girolamo De Liguoro. A caricare furono due squadroni del 2° rgt ùssari, guidati dal t. col. Filippo Pisacane (fratello germano del defunto mazziniano Carlo), i quali, sotto il terribile fuoco dell'artiglieria, voltarono i cavalli e si diedero alla fuga, investendo e creando lo scompiglio tra i fanti che seguivano. Il comandante della divisione di cavalleria, brig. Giuseppe Palmieri, uscito dalla fortezza di Capua dove era stato lasciato inattivo, si frammischiò alle sue truppe per cercare di spronare i demoralizzati in ritirata a riprendere il combattimento, ma non vi riuscì, e gli ùssari si ritirarono al galoppo fino a Capua.

 

Il contrattacco di Garibaldi

Visto che di fronte non si poteva sfondare, Francesco mandò l'ordine di attacco ad Afan de Rivera, vittorioso a S. Angelo, e a Sergardi da S. Tàmmaro con la sua cavalleria. Sarebbe stata una manovra a tenaglia che avrebbe stretto, da nord e da ovest, S. Maria. Ma Afan de Rivera, incredibilmente, non fu reperibile e, solo troppo tardi, i comandanti delle due brigate, Barbalonga e Polizzy, guidarono un attacco, invero fiacco. Queste due brigate combattevano, ormai, da dieci ore di fila e, in particolare la brg Polizzy, avevano subito pesanti perdite (circa 500 uomini tra caduti, feriti e dispersi).

Sulla strada S. Angelo- S. Maria Garibaldi aveva schierato i rinforzi che fermarono l'attacco napoletano verso le tre pomeridiane. Poi, guidate dal prussiano Rustow, contrattaccarono la brg Milano e la legione ungherese, seguiti da una parte della brg Azzanti. I napoletani, stanchi e sgomenti, abbandonarono le loro posizioni, arretrando verso Capua.

Contemporaneamente si scatenarono altri tre contrattacchi garibaldesi: a S. Angelo dalle div. Medici e Avezzana; sulla strada per Capua alcune riserve al comando di Turr; a S. Tàmmaro uno squadrone improvvisato, formato da 200 magiari, polacchi, inglesi e qualche italiano, appoggiato da una cmp dei toscani di Malenchini, che caricò e fece retrocedere fin sotto Capua i lancieri di Sergardi, dopo una mischia furibonda.

 

La ritirata generale

Vista la debole resistenza della div. Tabacchi sulla strada di Capua, la perdita di S. Tàmmaro e l'imboscamento di Afan de Rivera a S. Angelo, il mar. Ritucci ordinò la ritirata generale. Erano le cinque pomeridiane.

Le truppe napoletane rientrarono in ordine nei loro alloggiamenti di Capua, senza essere molestati dai nemici, grazie all'opera del col. Carlo Grenet che con un btg del 2° rgt granatieri coprì egregiamente la ritirata, guadagnandosi la promozione a brigadiere; nel fronte di S. Angelo coprì il ripiegamento la brg Barbalonga, bloccando il nemico sulle sue posizioni. Ritucci avrebbe ancora potuto utilizzare le riserve agli ordini del gen. Colonna, rimaste inoperose dietro al Volturno; ma, scoraggiato dalla cattiva prova della guardia e degli ùssari, nonché dalla viltà di alcuni alti ufficiali, fra i quali Afan de Rivera, rinunciò a proseguire l'offensiva.

Gli assalti alle postazioni garibaldese di S. Maria e S. Angelo, ben fortificate, erano costati ai napoletani un alto tributo di sangue: 260 caduti, 731 feriti e 322 prigionieri (quasi tutti della guardia reale).

 

Il contrattacco di Bixio

Ad oriente, intanto, come già detto von Mechel si era fermato in attesa di Ruiz, dopo aver espugnato le posizioni garibaldesi dei Ponti della Valle. Ma Ruiz non giunse. Arrivò, invece, il contrattacco di Bixio che, riorganizzati i reparti e rinforzato da truppe fresche, costrinse von Mechel a ripiegare verso le tre pomeridiane. La ritirata napoletana fu ordinata e coperta in retroguardia dall'artiglieria e dal 3° btg esteri. Ai garibaldesi non fu lasciato nulla, trasportando pure i feriti che furono 81. Sul campo rimasero 42 caduti e 96 prigionieri "volontari" (disertori). I garibaldesi soffersero perdite più gravi.

 

Caserta

La brg Ruiz si era riunita a Caserta Vecchia, forte di ben 4 reggimenti per circa 5000 uomini. Il col. Ruiz tenne con sé a Caserta Vecchia il 2° rgt (t. col. De Francesco), una parte del 4° (mag. Anguissola) e la btr n° 6 (cap. Iovene), sparpagliando in avamposti, sopra Caserta, il resto del 4° rgt, il 6° e l'8°.

Durante la notte arrivò un messaggio di von Mechel che comunicava la propria ritirata ad Amorosi. Riunito un consiglio di ufficiali superiori, Ruiz decise per la ritirata verso Caiazzo; ma non ebbe il tempo di avvisare tutte le sue truppe, perché la brg Sacchi già attaccava da S. Léucio il 6° e una parte dell'8° rgt di linea. Li comandava il t. col. Nicoletti che sollecitò il soccorso di Ruiz. Questi, però, preferì ritirarsi vigliaccamente con le riserve a Caiazzo, lasciando indietro circa 2000 uomini. Vìstosi abbandonato, Nicoletti si ritirò verso Limàtola, pressato dalla brg Sacchi; qui fu raggiunto e circondato dai nemici, e si arrese con un migliaio di uomini del 6° e 638 dell'8°.

 

Garibaldi, intanto, avvisato della presenza della brg Ruiz a Caserta Vecchia, aveva riunito un buon numero di combattenti, formati in gran parte dai calabresi del gen. Stocco e da quattro cmp dell'esercito piemontese che, fino ad allora, si erano limitate a presidiare i forti. Così, attaccando dal parco della reggia di Caserta, entrò in contatto con alcune compagnie in avamposto del 4° di linea al comando del t. col. Musso; si trattava delle frazioni dei disciolti reggimenti 13° e carabinieri incorporati, appunto, nel 4° di linea, con una forza di circa 500 uomini. I napoletani furono investiti a destra da Garibaldi, mentre di fronte c'erano le riserve di Sìrtori, ad oriente le truppe di Bixio, provenienti da Maddaloni, e a nord la brg di Sacchi. Circondati, dopo breve resistenza i borbonici si ritirarono verso Caserta Vecchia, dove, dopo un altro scontro, si arresero sullo stradone di Centorano.

La notte del 2 ottobre, per l'inettitudine e la viltà del loro comandante, 2089 soldati della brg  Ruiz erano caduti prigionieri, solo 6 caduti e 8 feriti le altre perdite, a dimostrare la scarsa resistenza opposta ai nemici.

 

Conclusioni sulla battaglia

La più grande battaglia di tutta la campagna del 1860-61 era terminata. Il costo per gli invasori era stato di 3423 uomini: 506 caduti, 1528 feriti, 1389 fra prigionieri e disertori. Le perdite napoletane erano state poco più gravi, 3735 uomini, di cui 308 caduti, 820 feriti e 2507 prigionieri.

I napoletani non erano riusciti a sfondare il fronte, per cui la vittoria, seppur difensiva, era dei garibaldesi. La differenza fra i due eserciti era stata fatta dai capi. Erano state decisive la sorte amica e le capacità tattiche e strategiche di Garibaldi, sempre presente nei momenti cruciali dei combattimenti, trascinatore ed animatore dei suoi uomini anche nei momenti più critici. In una battaglia combattuta secondo i canoni tradizionali, manovrata e complessa, aveva dimostrato di saper scegliere ottimamente il terreno e i momenti e i luoghi di intervento delle riserve, le quali bloccarono le offensive nemiche nel momento del loro maggior impegno. I suoi luogotenenti erano stati tutti all'altezza, combattendo e guidando gli uomini con freddezza e coraggio. Bixio, Medici, Milbitz (quest'ultimo ferito) furono tenaci nella difesa delle posizioni; mentre Turr, Rustow, Sìrtori furono decisivi nel guidare i contrattacchi. Ottimi furono i comandanti intermedi. Ottimo anche il comportamento della truppa che resistette tenacemente, al costo di gravi perdite, a continui e violenti attacchi. Eccezione costituì la brg Ebherardt che fu travolta e sfaldata dai mercenari di von Mechel.

 

I soldati napoletani non erano stati inferiori per aggressività, spirito di sacrificio e coraggio, a parte la guardia reale e la brg Ruiz. La guardia reale, eccezion fatta per il btg tiragliatori, aveva combattuto con tattiche superate dall'avvento dei fucili rigati e, complessivamente, non dette buone prove sul Volturno. Non brillarono neanche i reggimenti di linea, già decimati ed umiliati nelle campagne di Sicilia e delle Calabrie. Furono all'altezza della loro fama, invece, i battaglioni cacciatori, salvando l'onore dell'esercito napoletano. I comandanti di reparti intermedi li avevano guidati con audacia e buone capacità tattiche. Erano mancati, invece, i generali. Ritucci, seppur coraggioso di fronte al nemico, non seppe gestire al meglio la battaglia e le proprie riserve, mancando, pure, di decisione. Il suo errore più grave fu quello di scagliare l'attacco principale contro le posizioni nemiche più forti: quelle di S. Maria e di S. Angelo. Avrebbe potuto, invece, effettuare una finta in quelle posizioni, per attirare le forze nemiche, tentando di rompere il fronte sull'ala destra nemica, a Maddaloni, per giungere alle spalle delle riserve di Caserta e conquistare la ferrovia. Ma avrebbe dovuto fornire molti più uomini a von Mechel, col quale era ai ferri corti. Nell'attuazione del piano di battaglia non seppe imporre la propria volontà su molti dei suoi sottoposti e non seppe governare la giornata come si conviene ad un generale in capo. Si spostò da un punto all'altro del campo senza poter avere sempre cognizione della situazione. Utilizzò dissennatamente la cavalleria, frazionandola in appoggio ai vari reparti e togliendole quella forza d'urto che nell'Ottocento era di importanza decisiva. Si fece imporre generali che non stimava, a discapito di altri, come Colonna, che furono messi praticamente in disparte. Pur considerando la Guardia Reale inadatta, la utilizzò nell'assalto principale di S. Maria, invece di metterla in riserva al posto della divisione Colonna, formata da ottimi battaglioni cacciatori. Infine, lasciò inutilizzate troppe riserve, le quali avrebbero potuto avere un notevole peso sull'economia della battaglia. Ritucci mancò di fiducia e, soprattutto, di audacia.

 

Pessimi furono i comandanti di divisione. Afan de Rivera dimostrò tutta la sua inettitudine di comandante di divisione, non solo perché non partecipò attivamente alla manovra, ma soprattutto perché abbandonò al loro destino i suoi dipendenti, scomparendo dal luogo delle operazioni con tutto il suo stato maggiore. Le sue truppe, grazie ai comandanti di brigata, si comportarono vittoriosamente, ma a causa della mancanza di coordinamento che a lui come comandante di divisione si richiedeva, non poterono cogliere il frutto della momentanea vittoria. Tabacchi, troppo lontano dai luoghi dei combattimenti, utilizzò le riserve anticipatamente ed in malo modo, e la sua divisione, malgrado gli sforzi dei comandanti di brigata Marulli e D'Orgemont, non abituata al fuoco si decompose, pur combattendo ammirevolmente nelle prime ore della battaglia. Sia Tabacchi che de Rivera non curarono i collegamenti col quartier generale, tanto che Ritucci non riuscì a rintracciarli. Von Mechel si era comportato da valoroso, ma, arrogante e testardo, aveva modificato il piano d'attacco di Ritucci senza avvisarlo, compromettendo l'esito della battaglia. Il còmpito affidatogli era quello di aggirare le posizioni garibaldesi dalla parte di Maddaloni, per sboccare dietro le linee nemiche sulla linea di Caserta e S. Maria. Per questo, oltre le forze della brg estera, gli era stata aggregata la brg Ruiz; ma egli aveva diviso le forze, inviando Ruiz verso Caserta e affrontando la divisione Bixio con la sola brg esteri. La mancanza delle riserve, bloccate a Castelmorrone per l'inettitudine di Ruiz, non permise a von Mechel di dare la spallata decisiva al fronte degli invasori dei Ponti della Valle di Maddaloni. Ottimo colonnello, von Mechel si dimostrò pessimo generale commettendo gravissimi e decisivi errori.

 

Situazione dell'Esercito Borbonico

Pur respinti, però, i napoletani erano ancora superiori per uomini, armi, munizioni ed equipaggiamenti. Inoltre, le fortezze di Capua e Gaeta erano ancora in loro possesso ed irte di cannoni.

Dopo aver distribuito nastrini ed encomi, Francesco ordinò a Ritucci di riprendere l'offensiva lo stesso 2 ottobre, visto che l'ìmpeto combattivo dei suoi soldati non si era esaurito con la sconfitta e che i reparti garibaldesi erano duramente provati e ridotti del 20% dalle perdite. Ma Ritucci, ormai rassegnato e scoraggiato, mosse una serie di obbiezioni tale da rinviare a tempo indeterminato una nuova offensiva. Così fu persa l'ultima occasione per vincere la guerra, dato che ormai si avvicinava il contingente piemontese da nord.

Gli effetti su Napoli dell'offensiva del 1° ottobre erano stati dirompenti. La vista di centinaia di feriti e di fuggiaschi, e il timore che i soldati napoletani e svizzeri fossero ormai alle porte pronti a consumare un'atroce vendetta, provocò il pànico nella popolazione. In particolare pérsero la calma alcuni personaggi del vecchio regime, fra i quali  quel voltagabbana di don Liborio Romano, che da poco avevano cambiato bandiera.

Mentre Francesco cercava di superare le resistenze di Ritucci, Garibaldi riorganizzava il suo esercito, in attesa dell'arrivo delle truppe piemontesi

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PROCLAMA

DEL COMANDANTE IN CAPO

ALL'ARMI! ALL'ARMI! ALL'ARMI!?

di Antonio Ciano - "I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD" - Grandmel?, ROMA, 1996

[?] Il piemontese nemico del nostro Re, della nostra Monarchia, delle nostre leggi, nemico del patrizio, del borghese, del contadino, nemico di tutti gli ordini militari civili e religiosi; il piemontese che arde citt?, scanna i fedeli a Dio ed al loro sovrano, fa macello di sacerdoti, svelle dalle loro chiese i vescovi, e per sospetti caccia nelle carceri, negli ergastoli e negli esilii quanti non vede piegar la fronte all'idolo d'ingorda e bugiarda rivoluzione, il piemontese che copre con l'orgoglio la sua nudit?, e che si gloria di non sentir piet? nello sgozzar vecchi, vergini, pargoletti, n? ritrosia nel dar di piglio nella roba altrui o pubblica o privata; il piemontese che profana le nostre donne ed i nostri templi, ubriaco di libidine, fabbro di menzogna e d'inganni, schernitore di vittime da lui tradite: il piemontese fugge dinanzi allo scoppio dei nostri moschetti rugginosi; e nelle citt? dov'egli avea fondate le case di prostituzione ed il servaggio, ormai sventola il vessillo della libert? e della indipendenza del Regno al grido di viva Francesco II. La bandiera del sovrano ? gi? inalberata in Sora.

Popoli degli Abruzzi, delle Puglie, delle Calabrie, dei Principati, all'armi! Sopra i gioghi degli Appennini, ciascun macigno ? fortezza, ciascun albero ? baluardo. Ivi il nemico non potr? ferire alla lontana coi proiettili dei cannoni rigati, n? con l'unghie dei cavalli. Combattendo uomo con uomo, egli che non ha fede in Dio e in Ges? Cristo, ne pu? avere carit? de' fratelli, dovr? soccombere al fremito del nostro coraggio, alla forza dei petti devoti alla morte per una causa che merita il sacrificio della vita. All'armi! Le falci, le ronche, i massi valgono nelle nostre mani pi? che le baionette e le spade.

Un milione di anime oppresse si confortano con un grido alla pugna; sessantamila dei nostri stendono le braccia dalle carceri verso di noi; le ombre di diecimila ci dicono vendicateci.. Corriamo dai boschi alle citt?, dalle province a Napoli.

L'arcangelo San Michele ci coprir? col suo scudo, la Vergine Immacolata col suo manto, e faranno vittoriosa la bandiera che appenderemo in voto nel tempio. Il piemontese che ci deride, svilisce, conculca, tiranneggia, spoglia, e uccide con l'ipocrita maschera della libert?, ritorni nei suoi confini tra il Po e le Alpi. Ritorni a noi quel Sovrano che Iddio ci ha dato, e lo fe' generare nelle viscere di una madre santa, e crescere in virt? candido come il giglio, che adorna il borbonico stemma.

Francesco II e Sofia, ed i Reali principi c'insegnarono come si debba star saldi ed intrepidi nella battaglia. Vinceremo. I potenti dell'Europa compiranno l'opera nostra rimenando la pace all'Italia; ed il nostro regno all'ombra della religione cattolica e del papato, si riabbellir? di quella gloriosa borbonica dinastica che ci sottrasse ai duri ceppi dei piccoli tiranni, e ci diede ricchezza e franchigia vera, e la indipendenza dallo straniero. All'armi!

Il Comandante in capo CHIAVONE

Luigi Riccardi Ajutante

Luigi Alonzi detto Chiavone PDF Stampa E-mail

Luigi Alonzi detto Chiavone

?? Chiavone, il cui vero nome era Luigi Alonzi, era nativo di Sora. Il nonno era stato luogotenente del famoso Mammone. Era stato Guardia Nazionale nel suo paese, che abbandon? all'arrivo dei piemontesi ritirandosi a Casamari. Successivamente, torn? a Sora da trionfatore.

Dopo la vittoria di Bauco (Bovelle Ernica), continu? a combattere contro i piemontesi del colonnello Quintili, e si rifugi? nello Stato Pontificio. Era un contadino, ma non aveva mai perduto la vocazione militare. Si fece fare un'uniforme da generale, con galloni d'oro, bottoni, speroni, e scudiscio.

Della sua banda, alcuni indossavano uniformi francesi comprate nel ghetto di Roma, altri indossavano l'uniforme da cacciatori dell'esercito Borbonico, altri vestivano semplicemente da contadini, da ciociari. Esercitava un vero fascino.

L'abbigliamento era pittoresco: cappello di feltro nero con piuma bianca, tunica nera serrata alla vita da sciarpa di seta rossa, spadone alla castigliana. Non era malvagio, annota Monnier, ma poneva a riscatto i proprietari e speculava sul re che serviva. Aveva molta simpatia per Garibaldi, specialmente quando questi si irritava con i piemontesi, e come Garibaldi, sapeva ben utilizzare il pittoresco per guadagnare popolarit?.

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Si autonomin? Luogotenente Generale

di Ludovico Greco - "PIEMONTISI, BRIGANTI E MACCARONI " Guida, Napoli, 1975

Ad ogni viaggio cresceva: in grado. Si nomin? dapprima capitano, poi colonnello, poi generale, poi luogotenente generale. Tutte le sue fanfaronate non erano ingenuit?, ma artifizi. Inviava intimazioni ai Piemontesi per mostrarle poi ai comitati borbonici.

Evidentemente egli ne imponeva, a coloro che gli davano delle piastre, perch? null'altro ha fatto se non che raccoglier bottino. Temeva le palle: lo ripeto, non era n? un partigiano, n? un brigante. Partigiano ? un eufemismo, brigante un'iperbole.

Non era che uno speculatore, che poneva a riscatto i proprietari e che sovra tutto speculava sul re che serviva. Alla perfine non era malvagio. Gli si condussero un giorno due carabinieri piemontesi: non li impicc?, anzi li colm? di cortesie, e offr? loro anche del caff?, che mand? a rubare nel paese vicino. Bevuto che ebbero il caff?, propose loro di arruolarsi al servizio di Francesc? II o del Papa. Dietro il rifiuto di essi, li lasci? liberi, ritenendo le loro uniformi.

All'indomani rientrarono a Sora vestiti da contadini, latori di una carta preziosa, di cui non riproduco l'ortografia: "A tutte le autorit? civili e militari. Lasciate passare questi due contadini" Firmato Il generale CHIAVONE.

Gli atti di crudelt? commessi dalla sua banda non sono a lui imputabili. Io non conosco che una sola esecuzione da esso ordinata. Avea rubato de' muli a un proprietario: offr? di rendergli contro una somma di danaro: il proprietario non invi? la somma. Allora egli riun? un consiglio di guerra. I muli condannati a morte subirono immediatamente la pena.

I chiavonisti tirarono sopra di essi 17 volte, gridando ad ogni scarica Viva Francesco II, Viva Chiavone! La mania di Chiavone ? d'imitar Garibaldi. - Si d? aria di dittatore, ha conservato il suo pittoresco costume, i sandali, il cappello di feltro, l'abito, la sottoveste, i pantaloni di velluto, la cravatta rabescata, la sciarpa rossa, la cintura adorna di pugnali e di pistole.

Gli mancano per? alcune qualit?, prima l'ardire, poi il disinteresse, e finalmente l'ortografia. Chiavone non era molto pericoloso, e l'importanza che gli si ? voluto attribuire, anche ne' giornali liberali di Francia, ha sempre fatto ridere i Napoletani.

Si ingannano a partito coloro che affermano che egli fosse il generalissimo degli insorti, in queste provincie. Le bande non hanno giammai operato di concerto, n? hanno avuto l'apparenza di essere d'accordo, salvo una volta, forse alla fine di luglio. Ma non vi siam giunti ancora. Lo stesso consigliere Ullua (il solo uomo politico che sia rimasto presso Francesco II) se ne lagnava in una lettera confidenziale.

Tutti questi, uomini erano riuniti dal caso in corpi indipendenti l'uno dall'altro; tutti questi corpi avevano capi separati, che seguivano la loro propria volont?. Chiavone ha fatto parlar molto di s?, perch? ? rimasto in continua comunicazione con Roma, ove pubblicava i suoi bollettini e i suoi ordini del giorno. Gli altri relegati nelle, montagne dell'interno, non erano conosciuti che in Napoli, che si studiava di non esagerare le loro imprese: eppure furono ben piu' coraggiosi e pericolosi di Chiavone.

Marc Monnier: Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane, Firenze, 1862

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a Luigi Alonzi?detto CHIAVONE

??? Chiavone, il cui vero nome era Luigi Alonzi, era nativo di Sora. Il nonno era stato luogotenente del famoso Mammone. Era stato Guardia Nazionale nel suo paese, che abbandon? all'arrivo dei piemontesi ritirandosi a Casamari. Successivamente, torn? a Sora da trionfatore.

Dopo la vittoria di Bauco (Bovelle Ernica), continu? a combattere contro i piemontesi del colonnello Quintili, e si rifugi? nello Stato Pontificio. Era un contadino, ma non aveva mai perduto la vocazione militare. Si fece fare un'uniforme da generale, con galloni d'oro, bottoni, speroni, e scudiscio. Della sua banda, alcuni indossavano uniformi francesi comprate nel ghetto di Roma, altri indossavano l'uniforme da cacciatori dell'esercito Borbonico, altri vestivano semplicemente da contadini, da ciociari. Esercitava un vero fascino.

L'abbigliamento era pittoresco: cappello di feltro nero con piuma bianca, tunica nera serrata alla vita da sciarpa di seta rossa, spadone alla castigliana. Non era malvagio, annota Monnier, ma poneva a riscatto i proprietari e speculava sul re che serviva. Aveva molta simpatia per Garibaldi, specialmente quando questi si irritava con i piemontesi, e come Garibaldi, sapeva ben utilizzare il pittoresco per guadagnare popolarit?.

da: Giovanni De Matteo "Brigantaggio e Risorgimento - leggittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia"" Alfredo Guida Editore, Napoli, 2000

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